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Le ‘troie’ di Battiato: accezione uguale e contraria

di Redazione

E’ chiaro che rivestire cariche pubbliche impone la continenza del linguaggio, ma sembra, a chi scrive, freudiano che  tanta violenza verbale provenga da chi siede a dirigere l’Assessorato alla Cultura, quasi a segnalarci che è proprio tanto necessario riformare stereotipi culturali che relegano le donne, a tutti i livelli, e in tutti gli ambiti, in marginali ghetti concettuali  all’evidente scopo di depotenziarne le possibilità e le capacità.

 Di Daniela Mainenti

Sei una troia. Cosa si intende quando ci si esprime in questi termini? Oggi, magari sollecitati dall’attualità, varrebbe la pena porsi  la domanda.

Eppure è un’esclamazione veramente ambigua.

E’ un insulto. Anzi, un reato dal 2006, secondo la Cassazione, anche quando rivolto ad una cosiddetta ‘lucciola’.

A prescindere, però, dai risvolti giuridici, questo insulto non è l’equivalente di nessun altro insulto, esclusi i suoi sinonimi, e, come altri insulti, può essere usato in forma descrittiva oltre che performativa. Infatti sia che diciamo  “… quella è una troia…”, “ma anche “… lui è uno stronzo, fidati…”.

La cosa che non varia è il disprezzo che si riserva all’oggetto del discorso.

Ma cosa stiamo dicendo di questa persona, precisamente?

Parole come ‘merda’ o ‘stronzo’ definiscono in genere una persona aggressiva o  irrispettosa, cosa di cui è pure consapevole.

 Esse differiscono da ‘scemo’ e ‘coglione’ perché questi descrivono, invece, chi  non può fare a meno di comportarsi in maniera inadeguata. Un vizio di incontinenza direbbe Aristotele.

E ‘troia’?

Esso  è un insulto che si prendono solo le donne e riguarda il sesso. Quindi è, sicuramente, un insulto riferito al genere; al genere femminile.

Chiaramente, come le altre ‘definizioni’ di cui sopra, non va inteso in senso letterale: non stiamo dicendo che quella ragazza svolge la professione di prostituta e prende soldi in cambio di relazioni sessuali, ma che stabilisce un certo rapporto con questa figura.

In questa sede meglio sorvolare sull’accezione uguale e contraria: da playboy a cigolò.
Lasciamo da parte il maschio.

Cosa stiamo dicendo a questa femmina?

Che si è fatta pagare? No.

Che si è comportata come una prostituta. Sì.

E senza farsi pagare. Sì.

Ed è proprio qui il fatto, questa la vergogna, la stigmatizzazione.

Bisogna fissare a lungo l’abisso che teniamo dentro per capire cosa si nasconde sotto questa formulazione linguistica.

Le piace scopare. Lo ha fatto. Molte volte. E’ impura.

Alla base di questo uso linguistico pulsa il nucleo culturale della nostra tradizione: sia della parte cattolica, da una parte, che, pure, dalla parte di quelli che si dicono liberali, o di sinistra, e che percepiscono di non essere affatto a loro agio con questo linguaggio.

Essi  razionalizzano così: “… io lo dico solo a chi se lo merita…”. Per esempio, la ragazza che ti ha appena tradito. Allora loro, dicono, si sentono perfettamente in diritto di usare questo termine.

Eppure dicono ‘troia’, non ‘stronza’.

Rimane in questo termine un eccesso, un surplus, che è paragonabile a quelli che, parallelamente, dicono di non essere razzisti e di dire “negro di merda” solamente ai negri di merda, cioè a quelli che se lo meritano. Ma allora perché aggiungere ‘negro’?

Il termine in questione è un accusa di impurità e spesso ad oggi si collega anche l’idea che l’esserlo, in modo presunto ovviamente, possa pure essere usato per ottenere vantaggi e facilitazioni nella carriera.

Un’accusa di impurità che sempre più si allarga alle cose, ai luoghi. “Quello è un troiaio”, per esempio.

Oggi anche agli uomini si dà della troia  e ciò al fine di sottolinearne, a seconda dei casi, o la “deminutio” della virilità maschile, o la disponibilità al mercimonio  della propria dignità. In ogni caso una parola che racchiude in sé il massimo disprezzo.

Non è la prima volta che tale termine è stato usato nei riguardi delle donne in Parlamento, pure una donna, l’on. Angela Napoli, dalle fila di Futuro e Libertà, sostenne che in Parlamento alcune deputate avevano esercitato la prostituzione.

In tutti i casi, però, emerge, l’uso della donna, della figura della donna, per esprimere sentimenti o concetti, la cui potenza non potrebbe altrimenti essere raggiunta con altre parole.

E’ chiaro che rivestire cariche pubbliche impone la continenza del linguaggio, ma sembra, a chi scrive, freudiano che  tanta violenza verbale provenga da chi siede a dirigere l’Assessorato alla Cultura, quasi a segnalarci che è proprio tanto necessario riformare stereotipi culturali che relegano le donne, a tutti i livelli, e in tutti gli ambiti, in marginali ghetti concettuali  all’evidente scopo di depotenziarne le possibilità e le capacità.

 

 

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