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Progetto a Termine

Il regista siciliano Egidio Termine sigla la sua opera seconda, Il figlio sospeso. Un percorso di ricerca della verità che lambisce temi attuali...

di Massimo Arciresi

Il regista siciliano Egidio Termine sigla la sua opera seconda, Il figlio sospeso. Un percorso di ricerca della verità che lambisce temi attuali

 

di  Massimo Arciresi 

Il fotografo Lauro capisce che il padre Anturio, perso quando aveva appena due anni, ebbe una relazione extra-coniugale. Convinto di avere un fratello, avvia una ricerca che porta a galla fatti insospettati che lo riguardano direttamente. È un accenno dell’articolata trama – incentrata sulla costruzione di un’identità affettiva rimessa in discussione dalla scoperta di un ponderato ricorso all’ingegneria genetica – de Il figlio sospeso, secondo film da regista del palermitano Egidio Termine, già attore per Taviani, Magni, Cavani, Zeffirelli, Amelio, il quale riserva per sé il piccolo eppur fondamentale ruolo del dottore. Dopo il debutto dietro la cinepresa nel lungometraggio (Per quel viaggio in Sicilia, 1991), l’autore si è dedicato all’insegnamento e alla direzione di una scuola di cinema, al coordinamento di rassegne, alla realizzazione di documentari. Questa sua recente fatica è già stata presentata in vari festival, da Taormina a Bari, ed è stata proiettata l’anno scorso alla Camera dei Deputati. Lo contattiamo in occasione dell’imminente distribuzione nelle sale.

Dopo molti anni scegli di tornare al cinema di finzione. Aspettavi il progetto giusto o nel frattempo ne sono sfumati altri?
«Ne avrei scelto uno anche prima, è il cinema che non mi ha scelto (sorride). Come per il mio esordio, ho impiegato tempo e risorse, praticamente ho dovuto autoprodurmi. Non avevo altri film nel cassetto; adesso ne ho scritto uno insieme a Valentina Gebbia, Il barone Delle Palme, che spero diventi la mia opera terza.»egidio_termine

Uno dei temi affrontati è quello, scottante, della cosiddetta maternità surrogata.
«Sgomberiamo il campo dagli equivoci: non è il nucleo del film. Non ci sono “uteri in affitto”, c’è un dono amorevole di un’amica a un’altra in un momento difficile. Il problema che provo a sollevare riguarda la constatazione dei sentimenti superiori e imprevisti di una madre biologica e i conflitti che ne derivano. Viviamo un passaggio epocale tra umanesimo e post-umanesimo, siamo perplessi, sospesi appunto, non sappiamo dove ci porterà questa nuova forma di antropologia. E poi c’è il bisogno d’amore – qualunque sia la modalità di concepimento – di un figlio. Nello sviluppo di una personalità armonica, è un suo diritto, sin dal grembo. Comunque non ci sono moralismi, tentiamo piuttosto di comprendere ed evidenziare i percorsi interiori della madre surrogata e di quella biologica. E del figlio, che resta. Come domani resterà il film a testimoniare tale fase.»

La narrazione oscilla tra presente e passato. Hai deciso di far interpretare il padre e il figlio allo stesso attore, Paolo Briguglia (con e senza barba). Dietro c’è un’idea precisa, sembra.
«In realtà i piani sono tre, presente, passato e immaginazione del protagonista. La scelta dello stesso attore è una provocazione. Una volta si diceva mater semper certa est, pater numquam; qui si potrebbe controbattere pater semper certus est… Oggi di madri se ne possono avere pure quattro o cinque, quella che dona gli ovociti, quella che porta avanti la gravidanza, quella che adotta, la sua compagna… Il padre, conosciuto o meno, diventa l’unica certezza. Perciò ho voluto sottolinearlo, nei fatti nonché con lo sfogo di Anturio, che pensa che il bambino avrà il suo aspetto, i suoi geni.»

Quindi il montaggio – curato da Ugo Flandina – è determinante nella narrazione.
«Certo. Secondo me gli eventi proposti in ordine cronologico avrebbero dato luogo a un lavoro di stile televisivo, magari banale. Ho connesso le sequenze attraverso associazioni, similitudini, contrasti, analogie. Il pubblico è così coinvolto in una specie di gioco, di caccia al tesoro. Per stimolarlo ora svio, ora aiuto, per suscitare maieuticamente qual è l’idea che intendo comunicare. Per questo a volte è rappresentata la stessa scena da due o tre punti di vista diversi.»

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