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Vincenzo Monaco: dare voce al silenzio

Ennese di nascita e fiero di esserlo, Vincenzo Monaco, classe 1985, nostalgico giocatore di rugby ma soprattutto filmmaker si racconta cosi...

di Redazione

 

Il film, quando non è un documentario, è un sogno

(Ingmar Bergman) 

 

Ennese di nascita e fiero di esserlo, Vincenzo Monaco, classe 1985, nostalgico giocatore di rugby ma soprattutto filmmaker si racconta così: “Adoro ascoltare e raccontare gli altri. Stare dietro una camera, cogliere le espressioni altrui, registrare le voci e fare mie le loro storie è quel che mi entusiasma”

 

di  Daniela Giangravè

A Torino, completata la laurea in Cooperazione internazionale, instrada la sua vita frequentando un corso di videomaking alla ActingOUT. Lavorando come assistente alla camera e come elettricista in un piccolo set cinematografico, apprende tutto quello che occorre sapere per fare il filmmaker e il documentario è il format che sceglie per trasportare su pellicola le sue sensazioni e per alzare il volume dei pensieri di chi ha qualcosa da dire a voce alta. Una forma diretta, nuda e cruda e non artificiosa di raccontare le cose.

Dedica un intero anno alla realizzazione del suo primo documentario Ci chiamano diversi per mostrare ancora una volta come il pregiudizio, le parole sbagliate feriscano e a volte possano spezzare vite. Un vero e proprio viaggio nella coscienza collettiva.
Un altro progetto documentaristico indipendente è Pasquasia in cui si parla di una vecchia miniera di kainite importante a livello mondiale che nel 1992 improvvisamente cessa la sua attività produttiva.
Vincenzo applica le sue capacità anche a Spot video, Web e Social Editing e Grafiche. Rubiamo qualche minuto del suo tempo per conoscerlo meglio.

Com’è iniziato il tuo percorso alla ActingOut di Torino?pasquasia-Monaco
Prima del corso per filmmaker, frequentato a Torino, avevo già un interesse nei confronti del documentario, ossia uno strumento che consente di raccontare la realtà perché si possono affrontare migliaia di tematiche. Ciò che prediligo è il racconto degli individui nella società, quindi raccontare la società. Da questo corso ho imparato molto ma la palestra più grande è stata quella del “fai le cose e impara dagli errori”. Se non fossi stato determinato nel realizzare i miei lavori, non avrei mai concluso nulla.

Cosa pensi mentre stai dietro la macchina da presa?
Lavorare da solo è un grande limite perché non posso permettermi di pagare nessuno – ed il lavoro va sempre pagato – quindi sono tante le cose che si pensano, soprattutto quando si procede con un’intervista. Le interviste non sono tutte uguali. Io le differenzio in due tipologie: “intervista con margine” (di errore) e “intervista buona la prima (la più difficile, ma forse la più bella). Quando faccio un’”intervista buona la prima, tutto procede più velocemente e bisogna gestire in contemporanea l’interlocutore, cercando di tirar fuori le risposte utili per il tuo lavoro, la macchina da presa che non deve mai smettere di registrare e il microfono, strumento sensibile – non immaginate quanto – da tenere sempre sotto controllo.

Dico “buona la prima, perché non è possibile ripetere la stessa intervista per mille motivi. Infatti, se intervisti una persona alla quale si devono porre domande particolarmente scomode, e poi continuare ad incalzarla se evade le risposte, allora è una buona la prima. Inoltre, il momento delle riprese è un momento circoscritto all’interno della produzione di un film documentario, ma il lavoro che c’è prima, ovvero ricerca, studio ed organizzazione, e dopo con il montaggio, post-produzione e promozione, sono parimenti importanti e determinano tutto. Insomma, un documentario non nasce dopo le riprese o a fine montaggio, ma molto prima.

Tu non ti definisci un regista-artista. Spiegaci meglio nel dettaglio…
Non lo sono. Un regista dovrebbe occuparsi esclusivamente della regia di un film, mentre invece è tutto nelle mie mani e lo dimostrano i miei titoli di coda che sono infatti parecchio ripetitivi. Quindi è più indicato il termine inglese filmmaker. Inoltre, realizzo film documentari quindi sarebbe corretto definirsi documentarista. Artista? Non spetta mai agli artisti definirsi tali e nessuno mi ha mai definito come tale.

Quali sono i maggiori problemi che si riscontrano nel documentario come in una produzione video?
La difficoltà maggiore, appena realizzato il film documentario, sta nella distribuzione. Non esiste alcun canale di comunicazione, semplice ed immediato, tra un documentarista ed una distribuzione cinema e/o tv. Certo, esistono i film festival che sono una vetrina ampia e costosa ma che difficilmente danno i frutti sperati. Iscrivere un film ad un film festival comporta fatica, perché bisogna compilare moduli su moduli, e comporta denaro perché sono pochissimi i film festival gratuiti. Così ci si ritrova con uno o più film documentari – anni di lavoro – ma senza un pubblico che può amarti come odiarti.

I pro e i contro del lavoro di film maker…
“Penso che realizzare un documentario sia un modo coraggioso per fare film, perché è reale e perché tu sei davvero lì”. Con queste parole di Jamie Bell (attore britannico), credo si possa racchiudere tutto ciò che possa spingere un documentarista ad inoltrarsi in un nuovo progetto, soprattutto quando non si ha la disponibilità di un budget per la realizzazione. Realizzare un film documentario significa ricerca, studio e creatività. Ho investito anni della mia vita in questo e spero che tale sforzo non si rivelerà vano perché non posso più permettermi di continuare a svolgere questo lavoro in maniera gratuita. Riuscire a monetizzare in questo modo non è facile. È un settore estremamente chiuso e controverso.

“Sotto i nostri occhi”, cosa puoi dirci?
Lo scenario è questo: mi trovo a Milano da qualche mese, ospite della mia ragazza, in cerca di lavoro. Non trovarlo è qualcosa di mortificante. E inoltre, sfruttare la mortificazione di milioni giovani, e meno giovani, per trarne profitto è umanamente ripugnante. Tra la ricerca personale del lavoro (fatto per lo più di annunci sottopagati) e la ricerca sul fenomeno sociale denominato “disoccupazione” è nato “Sotto i nostri occhi”. Contenuti audio video – reperiti gratuitamente sul web – e contenuti personali frutto di ricerca e studio. Un film documentario corto, troppo corto, che sarebbe bello realizzare per come si deve fare.

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