Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

Un ennesimo caso di trascuratezza

di Redazione

Il triste caso della Collezione Posabella, rimossa dal Complesso Guglielmo II di Monreale per far luogo a un fantomatico museo multimediale 

di Salvo Ferlito*

Se aveste una collezione di opere d’arte di grandi maestri del ‘900 (Attardi, Campigli, Casorati, de Chirico, de Pisis, Greco, Guccione, Guttuso, Morandi, Music, Pirandello, Purificato, Rosai, Savinio, Severini, Sironi, Soffici, Tosi, Vespignani, tanto per citare alcuni dei più noti), la togliereste dalla vista, la impacchettereste e infine la riporreste in un deposito in attesa di nuova sistemazione? E soprattutto la sostituireste con qualche più o meno grande e più o meno interessante installazione multimediale? Ovviamente no. Nessuno infatti si priverebbe del godimento dato all’occhio ed alla mente da una siffatta raccolta di testimonianze del secolo trascorso.

Eppure a Monreale – sarà per l’altitudine – si è deciso di procedere proprio così. E’ il triste caso della collezione Posabella, una delle più importanti e complete raccolte di opere grafiche e pittoriche del Novecento presenti in terra di Sicilia, donata al Comune di Monreale dalla pittrice Eleonora Posabella e purtroppo oggetto – non da ora – di inadeguata valorizzazione e di sciatta trascuratezza. Allocata per anni nei locali del complesso Guglielmo II (il grande monastero attiguo al ben più noto duomo) e allestita secondo criteri espositivi decisamente discutibili (ben più adatti ad una sequenzialità da supermercato che ad un impianto finalizzato ad una fruizione valorizzante e qualitativa), adesso è stata del tutto sottratta alla vista dei turisti e degli appassionati, per far luogo – nel rispetto del più insensato “ubi maior minor cessat” – a un fantomatico “museo multimediale”.

Insomma, anziché puntare a un miglior allestimento museale e soprattutto ad una più efficace pubblicizzazione d’un tal patrimonio storico-artistico (in una compiuta e riuscita integrazione ed interazione fra un bene monumentale d’epoca medioevale e delle opere d’arte contemporanee), come sarebbe accaduto in qualsiasi paese civile ove viga un minimo di buon senso e di avvedutezza (tralasciando la competenza, perché alle nostre latitudini, fra i politici, è pura utopia), i nostri “grandi strateghi” delle politiche culturali hanno deciso inappellabilmente di porre in essere il solito fantasioso, faraonico e improduttivo (almeno fin ora) progetto ipertecnologico, in nome di quell’immancabile e modaiolo filoneismo per cui il “qui e ora” (anche se di notevole valore ed indiscussa importanza) deve obbligatoriamente fare luogo all’impellenza del “nuovo che avanza” (dalla valenza tutta da verificare), spacciato per requisito imprescindibile e sigillo inoppugnabile di fattivo adeguamento ai canoni della contemporaneità. E non basta che un tale piano di “riqualificazione” sia garantito dall’imprimatur degli immancabili “saggi” ed “esperti”; non basta, perché per la nostra classe dirigente gli unici addetti ai lavori degni di attendibilità sono solo quelli investiti di notorietà televisiva (in buona sostanza il solito Sgarbi, la cui onnipresenza mediatica è arcinota), in totale spregio dell’opinione, della cultura e dell’intelligenza dei tanti critici e storici dell’arte siciliani (e non) sicuramente meno avvezzi alle telecamere (e alle consulenze a peso d’oro) ma di certo più attenti alle sorti del patrimonio artistico insulare.

Laddove sarebbe stato più opportuno (ma anche più facile e meno costoso) adottare dei criteri espositivi maggiormente in linea con la contemporaneità (magari avvalendosi di pannellature da disporre all’interno dei grandi spazi del Guglielmo II, così da decongestionare l’evidente intasamento visivo lungo le pareti) e soprattutto gestire il tutto con delle effettive modalità manageriali (imponendo un biglietto unico per la visita al duomo, al chiostro e al complesso Guglielmo II, e possibilmente allargando il percorso anche al rinato museo diocesano, in maniera da allungare i tempi di permanenza dei turisti e dei visitatori e quindi da favorire altre ricadute economiche legate alla ristorazione e allo shopping) si è preferita, ancora una volta, la soluzione velleitaria e fine a se stessa, sulla cui proficuità ci sarebbe molto da riflettere. E fa specie – è d’uopo sottolinearlo – che nessuna “immancabile” associazione di “amici del museo” si sia fatta avanti a protestare e muovere critiche; fa specie, perché nella nostra “felix insula” ci sono sempre dei motivatissimi supporters di qualche museo inesistente (ma di tendenza assai piaciona, come per esempio il cosiddetto museo Riso), mentre latitano – purtroppo – quei veri e consapevoli conoscitori delle arti visive, disposti a battersi con forza per la difesa e la valorizzazione di raccolte d’arte realmente museali, il cui unico neo è però quello d’essere del tutto sconosciute ai più, e quindi non sufficientemente appetibili e desiderabili secondo quei canoni “modaioli” tanto cari alle solite vestali e alle onnipresenti dame di san Vincenzo della cultura isolana.

Condizione esemplificativa e paradigmatica, dunque, questa in cui versa la collezione Posabella, perché indicativa della totale inadeguatezza a prevedere, fronteggiare e risolvere i molteplici problemi che la donazione d’una rilevante raccolta d’opere d’arte può determinare. C’è da chiedersi, infatti, per qual motivo regalare alle pubbliche amministrazioni del nostro disastrato “bel paese” delle collezioni messe su con gran dispendio di energie fisiche, mentali ed economiche, se poi non si ha alcuna sicurezza o garanzia sul loro destino prossimo e remoto. Perché non rimetterle sul mercato artistico, consentendo ad altri collezionisti di goderle e conservarle adeguatamente, anziché lasciarle allo Stato italiano, senza alcuna certezza che esse vengano appropriatamente tutelate, esposte e poi fruite? Perché avviarle all’oblio di qualche deposito, o alla fruizione incongrua di qualche amministratore (nelle cui stanze potrebbero finire a fare bella mostra), o ancora ad una esposizione sciatta e non valorizzante?

Quesiti ponderosi e inquietanti, questi testé sollevati, che rappresentano però l’ennesima conferma della cronica incapacità della nostra classe dirigente di tutelare e far fruttare un patrimonio che ci rende unici nel mondo. Un autentico tesoro – quello lasciatoci da chi ci ha preceduto – che, oltre a costituire una inesauribile fonte di arricchimento culturale, potrebbe (e dovrebbe) determinare un concreto e notevole sviluppo di carattere economico e lavorativo, soprattutto in un periodo come quello che viviamo.

*critico d’arte

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