Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

Sud. Quale futuro?

Il Sud è destinato ancora a essere area di sottosviluppo? Potrà, il Ponte sullo Stretto, con la valanga di cemento con cui invaderà il territorio, rispondere all’esigenza di crescita di aree in cui, tra le infrastrutture che servono, ci sono per esempio quelle digitali e della conoscenza per la connessione e l’accesso allo sviluppo immateriale?

di Victor Matteucci

Il Sud sembrerebbe destinato ancora a essere area di non lavoro e sottosviluppo, ma è un paradosso nel secolo della cultura come merce pregiata. Il patrimonio storico culturale e l’economia della conoscenza potrebbero essere giacimenti su cui investire per un altro futuro. Le infrastrutture che servono sono quelle digitali e della conoscenza per la connessione e l’accesso allo sviluppo immateriale, per attrarre investimenti e fare della Sicilia un hub strategico nella regione mediterranea, Invece, si propone il Ponte sullo Stretto per un Sud che, è evidente, ha bisogno di ben altro.

Dal lavoro di produzione ai servizi di consumo

L’ attuale fase economica viene definita di capitalismo culturale.  Nel secolo scorso, invece, il capitalismo era industriale. Le conseguenze di questa transizione da moderna a postmoderna, che ha determinato una “rigenerazione urbana”  in cui si sono abbattute le fabbriche e le ciminiere per far posto a commercio, turismo e servizi, sono state varie. Innanzitutto, nel mercato del lavoro manuale oggi non servono più operai e competenze tecniche per la produzione, ma lavoratori generici per i servizi al consumo. L’offerta riguarda, infatti, una forza lavoro a bassa specializzazione o di lavoratori precari, impiegati, dipendenti dei servizi tradizionali (trasporto e ristorazione). Tutte occupazioni con una compressione dei redditi e una riduzione delle garanzie sociali.

Anche la vecchia borghesia non esiste più. Non servono professionisti e funzionari del lavoro disciplinato, burocratico e gestionale da impiegare nelle aziende, che sono stati sostituiti da programmi informatici e algoritmi, ma servono creativi, operatori finanziari, lavoratori della conoscenza, addetti ai servizi hi-tech. L’offerta di qualità è riferita a risorse umane munite di competenze informatiche e finanziarie.

Si è così formata una nuova, ambigua e ristretta classe sociale: la famosa “creative class”. Una classe di creativi, di risorse umane con medio alte competenze e un know-how tale da innovare ed elaborare soluzioni originali a problemi complessi dello sviluppo e di esperti della comunicazione in grado, con le nuove tecnologie, di determinare consenso, persuasione e visibilità. Tuttavia, questa nuova classe che offre servizi e di consulenza esterna alle imprese vive una sua condizione ambigua e contraddittoria. Da un lato, dispone di competenze tecniche strategiche, dall’altro, è condannata alla precarietà da contratti temporanei e alla instabilità dal lavoro autonomo.

Il lavoro precario della new economy

Alla fine degli anni ’90 era molto in voga (anche nel sindacato e nella sinistra) il termine flexicurity che era l’unione di “flessibilità” e “sicurezza” (sociale) e che rappresentava la linea maestra della deregulation del mercato del lavoro all’interno dell’ideologia neoliberista dello sviluppo.

Doveva prevedere due tempi: il primo, quello della flessibilità del mercato del lavoro che avrebbe aperto a nuovi contratti di ingresso superando l’idea del contratto omogeneo a tempo indeterminato e creando una molteplicità di figure lavorative. Tali nuove figure avrebbero dovuto favorire una maggior produttività e una maggiore crescita economica, incrementando l’ingresso nel mercato del lavoro in forme più convenienti. Tale crescita, infine, avrebbe dovuto consentire il reperimento delle risorse per creare, in un secondo tempo, la creazione di un adeguato sistema di sicurezza sociale per il lavoro atipico. Ma, così come si denunciava all’epoca, e come puntualmente si sarebbe, in seguito, verificato, tale secondo tempo non è mai cominciato.

Anche l’idea della new economy che puntava sulla teoria delle 3T (Talent, Thecnology and Tolerance) che prometteva ambienti attrattivi, città solidali, sviluppo della creatività e lavoro liberato, si sarebbe rivelata un’illusione. Così, la flessibilità del lavoro è tracimata in precarietà, e la precarietà, in continue  stragi di morti sul lavoro.

Lo sviluppo bloccato nei territori protetti

Questa generale situazione di precarietà diffusa, se la colleghiamo alla particolare situazione meridionale italiana, cioè a un contesto di sottosviluppo del Sud in cui la criminalità organizzata controlla il territorio attraverso alcune attività di base, come il mercato della droga, il gioco d’azzardo, il lavoro schiavizzato nelle campagne, la gestione dei migranti e l’estorsione, ne ricaviamo un quadro drammatico.

In un tale contesto, infatti,  la disponibilità di capitali, da parte della criminalità organizzata, provenienti dalle attività illecite, e la loro immissione nel circuito legale, indebolisce le imprese legali, diminuendone la competitività e costringendole a dover ricorrere al credito o all’usura.

Inoltre, una tale pressione criminale produce, proprio nel Sud, un freno alla possibilità espansiva delle imprese e determina una concorrenza distorta, perché le aziende mafiose possono contare, sia sulla ingente disponibilità di capitale illegale, sia sul controllo delle forniture e dei prezzi, sia su una rete criminale in grado di scoraggiare e dissuadere la concorrenza, sia sulla protezione dai controlli, grazie alla corruzione dei funzionari pubblici.

La conseguenza è che si determina una situazione locale depressa non solo, ma soprattutto per il nostro Sud, in cui: sarà minore il profitto lecito, si ridurrà il gettito fiscale, verrà meno l’esigenza di innovazione (in conseguenza della scarsa competizione). Diminuirà, inoltre, l’offerta di lavoro, aumenteranno la disoccupazione e il disagio sociale, con la conseguenza del reclutamento di nuovi lavoratori illegali. In pratica, convivere con un soggetto sociale improduttivo e parassitario sul territorio, è come avere qualcuno in casa da mantenere.

Quest’area di depressione e di precarietà meridionale, infatti, nel suo essere un territorio ostile, blocca lo sviluppo e respinge gli investimenti, mettendo in fuga le risorse umane con competenze.

Estrazione, riciclaggio e ricettazione delle risorse

Ma, come si comporta un intruso parassitario? Consuma, ruba in casa, e va fuori a rivendersi quello che ha sottratto cercando un ricettatore. I dati ufficiali, infatti, dicono che il 13% del Pil italiano è costituito da capitali della criminalità organizzata, estratto dai attività illecite nelle aree meridionali e reinvestito in regioni del centro nord o in Paesi esteri, o comunque in attività gestite da multinazionali, soprattutto del terziario. In alternativa, diventa capitale finanziario che viene investito in Fondi fiduciari e di speculazione o destinati a controllare proprietà internazionali, soprattutto nell’ambito dei servizi (turismo, sport e spettacolo)

Logica del sottosviluppo: ponti e porti nel deserto

Come si risponde dunque a questa situazione di ritardo e di sottosviluppo del Sud? Non sembra che si prevedano investimenti in infrastrutture informatiche e culturali adeguate all’attuale processo di sviluppo immateriale. Peraltro, siamo ancora in attesa delle infrastrutture materiali necessarie allo sviluppo industriale, (un modello di sviluppo che, nel frattempo si è chiuso da anni). Come, per esempio, la rete stradale, le ferrovie, la rete idrica, gli acquedotti (sempre per inciso, la regione siciliana ha appena annunciato che, per l’estate del 2024, si vedrà costretta a un razionamento dell’acqua).

Di fronte a questa condizione di svantaggio, il governo, in pochissimo tempo, ha, invece, approvato il ponte sullo Stretto di Messina, nonostante, appunto, che nel Mezzogiorno non vi siano né strade, né ferrovie, né acqua potabile fornita regolarmente.

Sembra evidente che la scelta, in un tale contesto, di una grande opera di infrastruttura viaria, che non risponde all’attuale fase di sviluppo, sia solo una cattedrale nel deserto che servirà a finanziare le solite, uniche imprese possibili al Sud. L’idea, con tutta evidenza, è di ripetere il modello realizzato con il porto di Gioia Tauro, che fu decisivo, a metà degli anni ’80, sia per le aziende che lo realizzarono, sia per lo sviluppo della ‘ndrangheta come cartello mondiale nel traffico di droga.

Anche in quel caso, dietro al porto, il deserto

Ma, così come il porto di Gioia Tauro non ha la stessa funzione del porto di Genova, allo stesso modo l’annunciato ponte di Messina non ha la stessa logica del ponte di Genova, ovvero di accelerare gli scambi e i collegamenti tra poli di sviluppo come Milano e Torino con il mercato internazionale; non essendoci poli di sviluppo da collegare, a causa del mancato sviluppo industriale sia in Calabria che in Sicilia. Piuttosto, la logica sarà quella di rallentare i lavori per attrarre più contributi possibili. La solita fabbrica-ergastolo di “fine lavoro mai”, come la Salerno Reggio-Calabria, una delle più efficienti che abbiamo avuto, che ha garantito una rendita fissa per cinquantacinque anni.

Porto di Gioia Tauro (foto Ministero dell’Interno)

Ma, su questo meccanismo della rendita alle imprese, attraverso il ricorso ai subappalti, la “revisione dei prezzi” e i tempi lunghi nelle opere pubbliche al Sud, potremmo citare centinaia di esempi. Tant’è vero che, vista la frequenza dei casi, “la Corte dei conti ha quantificato l’extracosto di una gara d’appalto inquinata dalla corruzione in circa il 40% del valore degli appalti pubblici per le grandi opere” (Corte dei conti 2012, pag.13).

Solo per citarne una: “Il contratto di manutenzione delle fogne di Palermo (negli anni ’70, nda )  era di due o tre miliardi all’anno; di quattro miliardi quello che riguardava le strade.  (…) Questi due contratti (di circa 7 miliardi) si traducevano ogni anno in un esborso del comune di 22-23 miliardi di vecchie lire. Il meccanismo era quello che ad un certo punto si decideva il fermo dei lavori per una verifica da cui conseguiva regolarmente una revisione dei prezzi concordati nel contratto. Per cui, ad esempio, la ditta Cassina incassava almeno dieci-quindici miliardi all’anno, e sappiamo che la metà, Cassina, li utilizzava per corrompere tutti e tutto e garantirsi la continuità degli appalti” (Cfr. Nino Mannino, Conversazioni sulla Sicilia, Istituto Poligrafico Europeo).

Ma potremmo anche citare l’extra budget dei Cavalieri del Lavoro di Catania: Carmelo Costanzo, nello specifico, che negli anni ’80, attraverso una decennale sovrafatturazione, riciclava miliardi, così come aveva scoperto il giudice Carlo Palermo.

L’economia della conoscenza e la cultura come merce pregiata

Eppure, se lo sviluppo industriale era tutto basato sulla lavorazione del ferro e sui giacimenti di materie prime come il petrolio, questa postmodernità sarebbe una opportunità di sviluppo per i territori con grandi giacimenti storici e  culturali come la Sicilia.

Tuttavia, questo giacimento culturale andrebbe estratto e, il patrimonio, messo in rete con un progetto di distretto e la creazione di un indotto di servizi, magari facendo convergere su questo obiettivo le strategie dell’alta formazione, gli indirizzi delle politiche regionali per lo sviluppo e orientando gli investimenti privati e del privato sociale.

Per fare questo, dunque, sarebbe necessaria una governance e una visione strategica di medio – lungo termine con competenze adeguate. E questo riapre lo storico problema delle classi dirigenti meridionali, più inclini alla rendita che allo sviluppo, più sensibili allo scambio garantito (di solito di natura corrotta o clientelare) che all’investimento e all’innovazione.

Nino Amadore, qualche anno fa aveva scritto a proposito dell’ idea di Distretto culturale per Palermo con l’ ipotesi dell’introduzione di una tassa di scopo. Questo, partendo dal presupposto che, nel capoluogo siciliano, oltre alla presenza di grandi istituzioni culturali, era cresciuto negli ultimi anni un reticolo di attività culturali che aveva le caratteristiche di un distretto spontaneo: dai libri ai beni culturali, dalla musica al teatro.

I Quattro Canti di Città

Probabilmente tentativi di  definire un distretto sono stati avviati. Un esempio è quello del dicembre del 2012, promosso dall’allora assessore alla Cultura, Gianni Puglisi, con la firma di un protocollo d’intesa, siglato tra il Comune, la Provincia regionale, la Fondazione Banco di Sicilia, l’Assindustria, l’Acep e il Consorzio Asi. Tentativi che, forse, andrebbero ripensati in un’ottica di rete più integrata e sostenibile, magari accompagnati da un business plan e da obiettivi intermedi. Un’alleanza con Università e con Istituti e società di innovazione tecnologica, potrebbe, per esempio, attivare e sviluppare un processo di formazione, sviluppo e occupazione. Il che avrebbe ricadute positive inimmaginabili per tutto il nostro Sud.

Anche una ricercatrice di Palermo, Cristina Alaimo, si era occupata di questo tema con una pubblicazione (Il distretto culturale di Palermo, in “Economia della cultura”, a. XV, 2005 nr 2) che aveva l’obiettivo di contrastare una dispersione delle risorse come conseguenza della mancata programmazione di lungo periodo. A suo dire “una nuova politica culturale distrettuale, intesa come rete di conoscenza, sarebbe stata in grado di portare in Sicilia grandi benefici”.

Resta il dubbio, per usare le sue parole, “fino a che punto risulti possibile indurre un distretto in una realtà sprovvista di mercato e politica culturale stabile e di una consapevolezza diffusa”.

Ma, se ci limitiamo a considerare il capitale, quello ci sarebbe; se, invece, volessimo considerare le risorse umane in grado di stabilire una governance per un processo di sistema, allora, forse, sarebbe il caso di aspettare. Il Sud ringrazierebbe.

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