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di Redazione

GLI SPLENDIDI PASTORI DEL MATERA AL MUSEO PITRE’ FINO AL 31 MARZO. UNA MOSTRA CHE AVREBBE MERITATO DI PIU’

Di Salvo Ferlito*

Opere d’arte del tutto compiute e di assoluto valore. In null’altro modo è possibile infatti definire o classificare i molteplici personaggi del presepe magistralmente plasticati – fra ‘600 e ‘700 – dal “pasturaru” trapanese Giovanni Matera. Piccole sculture realizzate con materiali poveri (tela, legno, colla e gesso) per nulla minori rispetto agli esempi della coeva statuaria di maggior “lignaggio”, poiché perfettamente calate nel contesto artistico dell’epoca, e in quanto tali in grado di incarnare pienamente lo spirito (estetico e culturale) del proprio tempo.

La marcata espressività fisiognomica, l’esibito pathos gestuale e posturale, i contenuti religiosi di carattere neo-pauperistico (derivanti dalle istanze teologiche del cardinale Borromeo, non a caso fatte proprie dagli Oratoriani di san Filippo Neri, fra i principali committenti del Caravaggio) rimandano infatti alla matrice originaria del naturalismo seicentesco, e cioè a quel caravaggismo che aveva imperato per tutta la prima metà del secolo XVII e che aveva contaminato la cultura visuale della Sicilia sia direttamente, attraverso le opere lasciate dallo stesso Caravaggio durante la fase isolana della propria latitanza, sia indirettamente, mediante le declinazioni linguistiche ancor più crude ed esasperate messe in atto dalla successiva riflessione del Ribera.

Non tragga dunque in inganno il linguaggio visuale di parvente derivazione popolare, perché, come nel caso inclito e arcinoto del Merisi, anche in quello del Matera esso è funzionale alla divulgazione (e alla facile comprensione) di quei contenuti dottrinari di renovatio paleo-cristiana finalizzati al recupero del messaggio originario del Vangelo (in una programmatica volontà di “depurazione” del cattolicesimo dalle sue peggiori “devianze” mondane) ed al contrasto (in una ottica post-tridentina) della diffusione fra le masse di suggestioni mutuate dalla Riforma protestante. In tal senso, le opere del Matera possono legittimamente essere affiancate a quelle pittoriche del Merisi (al quale lo accomuna anche una oscura vicenda giudiziaria, con analoga fuga e latitanza a seguito di un delitto) e dei suoi svariati epigoni, senza però esserne considerate una semplice (e semplicistica) filiazione, costituendo viceversa un esempio illuminante di come un lessico in voga e di tendenza in un determinato contesto storico-geografico possa poi essere declinato singolarmente con estrema e peculiare originalità, in una riuscita integrazione fra indicazioni estetiche provenienti dallo scenario artistico internazionale e connotazioni strettamente individuali e personali (e nel caso specifico anche locali, in considerazione dell’assoluta omologia tecnica che accomuna questi pastori da presepe ai grandi gruppi scultorei portati in processione durante la Pasqua proprio nel trapanese).

Suddivise per tableaux (Natività vera e propria, mestieri, soldati e musici, pastori) e collocate in appositi scenari all’uopo adibiti nella cappella della Palazzina Cinese, queste sculture avrebbero però meritato una migliore valorizzazione e ambientazione, attraverso l’adozione d’un più efficace sistema di illuminazione e grazie al ricorso a delle scenografie (degli “scogli”, per dirla alla napoletana) più esaltanti e di certo meno spartane (per esempio evitando lo strato di ghiaietta da lettiera per gatti adottato come base).

Non meno rilevanti di quelle della tradizione napoletana settecentesca (si pensi allo spettacolare Presepe Cuciniello), queste statuine meritano adesso di essere riconsegnate ad una fruizione definitiva e permanente, restituendo alla cittadinanza ed ai turisti un bene storico-artistico di cui, nell’ultimo decennio, si è potuto godere solo saltuariamente (in occasione di mostre temporanee). L’auspicio è che esse vengano esposte in maniera da essere valorizzate al meglio (come nella Certosa di San Martino a Napoli) e che magari possano essere affiancate da altre sculture da presepe di altra provenienza (per esempio da Caltagirone o da Napoli) e di altri periodi storici (fino ai presepi artistici dei nostri giorni). Forse è chiedere troppo, ma ricorrere a qualche acquisizione sul mercato antiquario (si possono reperire dei buoni pezzi senza spendere delle fortune) o attingere a delle donazioni (favorendole con una attenta politica di incentivazione) sarebbe degno di un vero e importante museo etno-antropologico, quale il Pitrè dovrebbe e potrebbe essere con un po’ più di mezzi e di buona volontà.

*critico d’arte

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