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Senza lasciare traccia – Una vendetta non premeditata

Circola nelle sale, perlopiù in serate appositamente organizzate, il bell’esordio di Cappai, Senza lasciare traccia. Un’opera dal percorso arduo...

di Massimo Arciresi

Circola nelle sale, perlopiù in serate appositamente organizzate, il bell’esordio di Cappai, Senza lasciare traccia. Un’opera dal percorso arduo

 

di Massimo Arciresi

Debuttare nel lungometraggio di finzione – malgrado si abbiano alle spalle apprezzati cortometraggi, mediometraggi e documentari, magari premiati – non è semplice in Italia, meno che mai oggi. Lo sa bene il cagliaritano Gianclaudio Cappai, che ha terminato le riprese del suo Senza lasciare traccia nel 2014 e solo adesso può accompagnarlo in sala. Per davvero: il film, distribuito in poche copie a partire da metà aprile, sta circolando in diverse città insieme al suo autore, che ne svela risvolti nascosti e ne racconta pure alcuni retroscena.

Il plot ruota attorno a Bruno (il duttile ma sempre tenebroso Michele Riondino), conscio – sebbene non fino in fondo – della malattia che lo sta minando, il quale decide di seguire la compagna restauratrice Elena (l’ormai preziosa Valentina Cervi) in una zona agreste dove è stato scoperto, all’interno di una chiesa, un antico dipinto da rimettere in sesto. La donna non sa che proprio da quelle parti si consumò il dramma infantile del partner, che da allora si porta sul corpo cicatrici e ustioni causategli da una mostruosa disavventura, chiarita a noi pian piano. Quest’ultima, secondo lui, ha dei precisi responsabili: Giulio (lo scrittore e batterista Vitaliano Trevisan, fortemente voluto dal regista, dai tempi di Primo amore – anche lì il suo personaggio sfoggiava una certa “rudezza artigianale” – assai parsimonioso nella scelta dei ruoli) e sua figlia Vera (un’impulsiva Elena Radonicich), che stanno affrontando gravi problemi economici nella loro fattoria. Qui c’è una fornace abbandonata, teatro del trauma di Bruno nonché motore dell’intera storia e, naturalmente, della torrida – per non dire “infernale” – scena risolutiva (per inciso, professionalmente fotografata da Fabio Paolucci e punto d’orgoglio del lavoro dello scenografo Alessandro Bertozzi).

valentina_cervi
Valentina_Cervi

All’inizio, come racconta lo stesso Cappai, l’opera era stata montata in maniera più tradizionale seguendo la cronologia dei fatti, con un finale a effetto che però rappresentava il facile culmine di un percorso emotivo frenato e in qualche modo deprivato di curiosità. Non rinunciando al laconico clima da noir, costruito con pazienza e piuttosto raro alle nostre latitudini, Gianclaudio si è impuntato e ha ridefinito il crescendo della trama, giungendo a un risultato suggestivamente enigmatico, con un epilogo aperto e tuttavia carico di significati, soprattutto riguardo al relativamente tacito rapporto tra un uomo condannato e colei che l’accompagna senza nulla domandare.

Ci sono precedenti interessanti nell’ambito del moderno revenge movie nostrano (fra gli ingiustamente dimenticati, sovviene Come due coccodrilli di Giacomo Campiotti, di oltre un ventennio fa e sicuramente non cruento), però la pellicola (ebbene sì, è un lavoro coraggiosamente girato in 16 mm!) se ne discosta di proposito, poiché non c’è vera premeditazione nel protagonista, piuttosto un istinto ferino che lo porta ad agire a seconda delle circostanze, e comunque meno legittimamente di quanto possa immaginare. La schiacciante, disagevole atmosfera di diffidenza che connota gli eventi fascia adeguatamente la sceneggiatura (scritta con Lea Tafuri). Restano delle imperfezioni, indubbiamente dovute all’iter (post)produttivo; sostanzialmente poca cosa, se si considera che il materiale di partenza era “spinoso” (sia tematicamente sia stilisticamente) e che reperire delle locations consone a far da sfondo alla vicenda (trovate infine dalle parti di Lodi) era tanto complicato quanto fondamentale.

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