Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

Sentirsi un po’ a casa

di Redazione

 

Viaggio tra la comunità tamil di Palermo  

    

di Fabio Vento  

Fiori, candele votive e l’impegno della propria fede: poche tradizioni palermitane reggono il confronto con l’annuale pellegrinaggio al santuario di Santa Rosalia (foto di Francesco Lo Presti).  Ma quella fiumana di fedeli, che ogni 4 settembre si inerpica sui viali di Monte Pellegrino, accoglie ormai da anni una singolare compagnia. La loro lingua non è familiare, anzi riecheggia terre lontane: sono i Tamil, originari del nord-est dello Sri Lanka. E di Palermo, dove si riuniscono nella più grande comunità d’Europa, hanno sposato perfino il culto della patrona. 

«I primi flussi migratori – racconta Stefano Edward, presidente dell’associazione “Giovani Tamil“di Palermo – risalgono alla seconda metà degli anni ’80, quando in Sri Lanka infuriava la guerra civile fra la nostra etnia e il popolo cingalese. Da allora i tamil si sono sparsi in tutto il mondo: in Italia esistono comunità di discrete dimensioni in città, come a Reggio Emilia e nella provincia di Genova, ma è Palermo che, con i suoi 5.000 residenti regolari, vanta i numeri più alti. Probabilmente è merito del clima mite che tanto ricorda le regioni a nord dello Sri Lanka. Perfino la linea delle coste è simile.» 

Stefano, 23 anni, è cittadino tamil di seconda generazione: a Palermo, dove è nato e cresciuto, frequenta il corso di laurea in Scienze della Comunicazione per i Media e le Istituzioni. Il suo sogno è quello di lavorare nel giornalismo o nelle pubbliche relazioni, come fa già nell’ambito della sua associazione. «Tanti giovani tamil come me – commenta – frequentano l’università di Palermo. I nostri genitori, che per primi misero piede in questa città, lavorano per lo più come collaboratori domestici: una scelta obbligata, sia per problemi linguistici che per la difficoltà nel riconoscimento del diploma o della laurea conseguita in patria. Qualcun altro lavora da impiegato nei patronati, c’è poi chi ha tentato la via dell’imprenditoria, aprendo negozi di alimentari o attività di ristorazione.» 

Come per esempio, in via Dante, la rosticceria di Thiyagarajah Ranistan, che per tutti è semplicemente Daniel. Non fosse per il colore della pelle, si stenterebbe a crederlo uno straniero: della lingua siciliana ha fatto proprie perfino la cadenza e i modi di dire. «Nacqui a Jaffna e vi rimasi fino all’età di 12 anni, – racconta – quando la mia famiglia si trasferì a Palermo. Dieci anni fa decisi di aprire questo piccolo luogo di ristoro per far conoscere i piatti della mia terra.» L’accoglienza fu tiepida, ma il tempo premiò gli sforzi, al punto che oggi Daniel è sposato con una conterranea e padre di Riccardo, palermitano doc.

«Con il tempo i palermitani hanno imparato ad apprezzare i nostri piatti: merito, forse, dei sapori che non sono poi tanto lontani dal cibo di strada siciliano.» Al riso basmati, agli spaghetti di soia e agli involtini primavera, che sono forse trait d’union con il più ampio mondo asiatico, la cucina tamil affianca una gran numero di specialità, per lo più basate sulla panatura e sull’uso sapiente delle spezie. Come i bonda e i samosa, ripieni di carne o in alternativa di patate e verdure, o i vadai, che con la frittura valorizzano il sapore delle lenticchie gialle e dei ceci. E se non bastano i sapori forti del curry, della curcuma e del cumino, ci sono salse prelibate come il dal di lenticchie e il chutney di cocco; per chiudere in bellezza con dolci come il masket di farina, mandorle e zucchero o l’halwa ancora a base di cocco. Aperta fino a tarda notte, quella di Daniel è più che una semplice rosticceria: è un vero e proprio luogo di ritrovo per palermitani insonni di tutte le classi e condizioni sociali. 

«Una critica ricorrente alle comunità di immigrati – commenta Stefano – è che siano poco aperte nei confronti della cittadinanza che le ospita; al contrario noi cerchiamo di gettare ponti verso gli altri gruppi etnici e verso la città di Palermo nel suo insieme. Ad oggi, dopo due generazioni, sento di dire che i palermitani sono più aperti all’integrazione e all’accoglienza. Credo di interpretare un sentimento generale nel dire che molti di noi qui si sentono a casa.» 

Sono ormai tante, infatti, le realtà di aggregazione tamil a Palermo, aperte alla cittadinanza e alle altre comunità della città. C’è la già citata associazione “Giovani Tamil”, che cerca di preservare la cultura tradizionale nelle giovani generazioni, oltre che di divulgare con manifestazioni la triste realtà che i tamil vivono in patria. Ci sono le lezioni e gli spettacoli di danza Bharatanatyam della scuola “Malathy”, dove bambine giovanissime, in abiti preziosi ed eleganti, imparano a disegnare le forme e i simboli delle più antiche tradizioni religiose. E c’è la scuola “Thileepan Tamil Cholai”, portata avanti su base volontaria per preservare, con l’insegnamento della lingua, i valori fondanti dell’etnia. 

Ad oggi, circa metà dei tamil presenti sul territorio sono cattolici, l’altra metà pratica la religione induista e soffre la mancanza di templi appositamente costruiti: un vuoto che, all’indomani del riconoscimento ufficiale dell’induismo da parte dello Stato italiano, pesa come un macigno. Il sacro, però, ha le sue vie privilegiate, e chi crede nella reincarnazione non fatica a cogliere in una santa cristiana gli stessi caratteri di carità e benevolenza propri di una divinità indù. Così da qualche anno Santa Rosalia, e il suo santuario, fanno parte del culto della comunità tamil. C’è chi acchiana su Monte Pellegrino ogni domenica mattina, per sciogliere un voto o rendere omaggio per una grazia, chi tiene immagini votive a casa propria, e chi partecipa con gioia al Festino di luglio insieme a tutti i palermitani.

«Da questa terra così lontana – conclude Edward – attendiamo un’epoca in cui la nostra patria torni ad essere un luogo sicuro e accogliente. Dal maggio 2009, con la conquista della città di Mullivaikal  da parte del governo cingalese, i tamil non posseggono più un proprio stato indipendente. La convivenza con i cingalesi non è facile e mina alla base le nostre radici sociali e culturali, la nostra identità profonda. Le attività imprenditoriali tamil vengono poco sostenute, le scuole che in passato insegnavano la nostra lingua impartiscono oggi il cingalese, gli stessi spostamenti sono resi difficili dalla presenza massiccia di basi militari di sorveglianza. Ma, quel che è peggio, è minacciata la nostra stessa libertà di parola e pensiero. Il nostro desiderio è quello di autodeterminarci in uno stato autonomo, al più in uno stato federale; e vorremmo arrivarci non con la guerra che tanto dolore ha causato da entrambe le parti, ma attraverso il dialogo. Chiediamo che la comunità internazionale avvii delle indagini indipendenti sui crimini di guerra commessi contro la popolazione civile tamil e auspichiamo un referendum popolare nelle regioni del nord-est per la scelta del nostro futuro come nazione. Nessuno di noi ama o ricerca la violenza.» 

Un’immagine che, forse, risuona più che altrove sulla parete della rosticceria di Daniel. Dove – in un altro, stupefacente slancio di sincretismo religioso – campeggiano uno di fianco all’altro le immagini del Buddha, della divinità indù Saraswati, di Gesù e di San Giuseppe. A chi gli chiede in chi riponga la sua fede, la risposta è semplice e luminosa: «Dio è uno».

 

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