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San Berillo. Buone pratiche nella città invisibile

A Catania c’è un luogo dove in tanti hanno trovato ospitalità prima di riprendere il viaggio verso Nord: il quartiere di San Berillo...

di Redazione

Catania. San Berillo è un quartiere centrale che deve il suo nome ad un originario di Antiochia, città dell’allora provincia romana della Siria, che avrebbe portato, secondo la tradizione, il Cristianesimo in Sicilia, divenendo il primo vescovo della città etnea.

 

di  Walter Nania

Il quartiere che porta il suo nome, ha vissuto la sua storia recente come quella di molte periferie. Fu oggetto di una serie di piani di risanamento sin dagli anni Venti del secolo scorso, quando l’industria dello zolfo indirizzava i notabili catanesi verso l’ipotesi di demolizioni radicali: il collegamento del quartiere popolare, caratterizzato da una urbanizzazione caotica e fittissima, con la stazione e il porto era troppo angusto per una città che aspirava a diventare tra le più dinamiche del meridione. La II Guerra Mondiale blocca il progetto, ripreso nel 1957, quando lo sventramento venne effettivamente realizzato. I trentamila abitanti furono deportati a San Leone, che da quel momento divenne San Berillo Nuovo, e del quartiere originario rimase solo una parte. Pochi, dunque, i residenti storici che continuarono ad abitare la parte rimanente del quartiere. In questi vicoli stretti da cui non si vede il mare e nei quali non entra mai il sole, gli immigrati arrivati di recente, o quelli storici come i senegalesi e i tunisini, giunti alla fine degli anni ottanta, convivono con un’altra umanità emarginata: la concentrazione massiccia di prostitute ha trasformato la zona in uno dei quartieri a luci rosse più importanti del Mediterraneo. Circa quindici anni fa un blitz della polizia “ripulì” la zona, e le case furono murate. Restarono solo le trans e le prostitute residenti.

Oggi, alla ricerca di via Opificio, mentre si percorrono le vie limitrofe al quartiere, parole velate suggeriscono attenzione per la via. Vicoli stretti, case basse e diroccate, pochi alimentari, fruttivendoli e qualche negozio etnico. L’odore, in particolare, lo differenzia molto: l’aria è riempita da odori e profumi di cibi senegalesi, marocchini. Stretto nella morsa dell’abbandono, della incuria e dello spopolamento, il quartiere oggi ha pian piano ripreso a vivere grazie a chi ha gradualmente colmato il vuoto comunitario che stava affliggendo questo spaccato urbano, relegato dalle istituzioni al nulla di un vasto, concettuale, quarto spazio. Le stradine strette sono un insieme di schiamazzi vari e voci sommesse che escono dai “bassi”, tra prostitute transessuali e bambini che giocano o che litigano. Raggiunta la strada, ecco la “la casa di quartiere” sede di un insieme di comitati e circoli che si affacciano davanti ad una ciclofficina/bar, ritrovo culturale e luogo accogliente. san-berillo-3

Nel circolo ARCI Melquiades, si organizzano diverse attività per gli stranieri: nato venti anni fa dalla necessità di un gruppo di migranti di creare una rete di persone che si occupassero dell’integrazione dei migranti con il territorio, sono stati organizzati il corso di italiano di diversi livelli, lo sportello legale, il laboratorio di teatro sociale, nell’ottica di uno scambio, spinto dalla reale voglia di coinvolgere i migranti nelle attività politiche e con la consapevolezza dell’importanza dell’autonomia. E a proposito di autonomia, il primo passo è quello di rendere i migranti indipendenti dal punto di vista dell’espressione linguistica, benché vi siano difficoltà quali il sovraffollamento delle aule, i livelli differenti di conoscenza della lingua italiana, le differenze di età, di genere e di paese di provenienza. All’interno di un ambiente raccolto quale è la classe, sono favoriti i rapporti personali e ciò permette anche una maggiore conoscenza di una realtà migratoria dipinta solo come emergenza a cui fare fronte. Conoscendo le difficoltà che i migranti affrontano durante il viaggio verso l’Italia, dalla raccolta del denaro per affrontare il viaggio, alla fatica dello stesso, ai tempi di permanenza che precedono la partenza per l’Europa (spesso in condizioni di abusi e violenze di vario tipo) e durante la permanenza, si comprende la necessità di “accoglierli”, non nel senso di soccorso da parte attiva a parte passiva, ma nel senso di un rapporto attivo da entrambe le parti, di collaborazione, lavoro e interesse.

Una volta conosciuto l’esito della domanda di asilo, gli immigrati sono invitati a lasciare i centri d’accoglienza, perdendo i benefici che il sistema di protezione dovrebbe aver garantito loro almeno per tutto il periodo di attesa: vitto, alloggio e un pocket money giornaliero. Da quel momento entrano in un altro limbo, costretti ad aggirarsi come fantasmi. A Catania c’è un luogo dove in tanti hanno trovato ospitalità, o almeno un rifugio temporaneo, prima di riprendere il viaggio verso Nord: il quartiere di San Berillo.

Un viaggio lungo un giorno in un’area di così stretto e inevitabile contatto, humus perfetto del conoscersi, in cui si costruisce un sentimento di appartenenza comune e di riappropriazione di una umanità troppo a lungo derisa, emarginata.

 

 

 

 

 

 

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