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Questione di genere: quando la lingua italiana crea il preconcetto

E’ indubbio che la lingua, nel nostro caso quella italiana, sia “androcentrica” e quanti stereotipi linguistici siano purtroppo presenti e diffusi dai mezzi di comunicazione...

di Redazione

Noi siamo le parole che usiamo, la lingua ci fa dire le parole cui la società l’ha abituata. Può essere usata per rispettare o per disumanizzare, per stimolare comportamenti civili o incivili: è il mezzo privilegiato attraverso cui costruiamo i significati.

 

di  Claudia Ferreri in collaborazione con Graziella Priulla*

E’ indubbio che la lingua, nel nostro caso quella italiana, sia “androcentrica” e quanti stereotipi linguistici siano purtroppo presenti e diffusi dai mezzi di comunicazione. Per raggiungere una parità di genere bisognerebbe appunto partire dalle parole in uso. “L’ipotesi generale è che la lingua non solo manifesti, ma condizioni il nostro modo di pensare: essa incorpora una visione del mondo e ce la impone. Nella lingua la posta in gioco è l’interpretazione del mondo. Essa non ha solo la funzione di rispecchiare i valori, ma anche quella di concorrere a determinarli, organizzando le nostre menti. Noi siamo le parole che usiamo, la lingua ci fa dire le parole cui la società l’ha abituata. Può essere usata per rispettare o per disumanizzare, per stimolare comportamenti civili o incivili: è il mezzo privilegiato attraverso cui costruiamo i significati. E’ quel che pensa la professoressa Graziella Priulla*. La forma “ingegnera”  sembra inaccettabile solo perché fino ad ora le cameriere , infermiere  erano tante, mentre la professione di «ingegnere» era esclusivamente maschile. La lingua italiana è molto complessa e basata sul genere ma non si capisce perché l’accezione al femminile risulti così difficile da inserire nell’utilizzo quotidiano visto che non si tratta di neologismi ma di regole grammaticali.  donne

L’infermiera sì, l’ingegnera no ! La discriminazione di genere non solo vede le donne svantaggiate dal punto di vista lavorativo, economico ma anche nel modo con cui vengono descritte attraverso un linguaggio che le pone ad un livello inferiore.  La lingua dovrebbe necessariamente seguire l’evoluzione della società, sicuramente non risolverà in toto queste differenze ma il problema non sono le differenze, ma i concetti riduttivi e stereotipati che esse esprimono della immagine della donna di fronte la centralità dell’uomo.
Secondo la professoressa Graziella Priulla: “ Qualunque donna raggiunga un potere in Italia viene immediatamente aggredita con toni sessisti. I commenti sciagurati che stanno seguendo l’elezione recente di tante sindache aprono considerazioni più ampie. Decenni di femminismo sembrano essere passati invano. Gli insulti sessisti dopo gli anni della rivoluzione femminista avrebbero dovuto sparire, perdere potenzialità offensiva; invece sono ancora lì, come i pregiudizi che li mantengono in vita. Siamo cambiati e siamo cambiate, ma non più di tanto; anzi negli ultimi anni siamo tornati/e indietro, con un’involuzione di cultura e di riconoscimento di diritti. Il rapporto tra linguaggio e politica è uno dei temi centrali del nostro tempo, Orwell l’intuì prima di altri: è il linguaggio che consente di abitare nel regno del politico.. Questa costruzione è condivisa da altri, e se non è socialmente delegittimata sarà imitata. Una società in cui si possa insultare o denigrare un essere umano senza essere mal giudicati è a rischio di barbarie. In Italia esiste, e abbiamo permesso che diventasse forte, una cultura razzista, omofoba, sessista, che amplifica i borborigmi della pancia del Paese, che nessuna political correctness riesce a debellare. Quando il soggetto preso di mira è una donna, l’offesa o la minaccia assumono immediatamente una declinazione sessuata. Esiste una sottovalutazione sociale dei passaggi che precedono l’approdo alla violenza: si tollerano forme di sessismo definite scherzo, le si definisce “felice provocazione”, si simpatizza con varie forme di disprezzo e di volgarità che costituiscono un terreno di coltura già prodromo di violenza. La rete ne è piena, i social network e Youtube pullulano di siti “divertenti” che in realtà sono spesso istigazione a delinquere. Le buone o le cattive maniere, nel linguaggio e nella vita, non sono fini a se stesse: sono lo specchio di un modo di essere, di una filosofia. La volgarità non è solo forma. Reiterando e prolungando la somministrazione, il corpo ed il cervello si abituano. Fenomeni così macroscopici sono indice di un generale stato di crisi e di frattura, prima che delle regole formali, del costume pubblico e privato, dei valori condivisi dalla comunità, della cultura nazionale e delle stesse condizioni di una convivenza civile dignitosa.
Chi esprime disapprovazione può esser certo/a di ricevere l’etichetta di ‘moralista’, sinonimo di beghina/bacchettone, o di persona noiosa e pedante, che è incapace di fare i conti con la realtà, o di ipocrita, che predica bene e razzola male. Le correzioni e le critiche antisessiste al linguaggio comune sono avvertite come artificiose e irrilevanti, come se si volesse modificare in modo intellettualistico qualcosa che si è formato in maniera naturale. Ci si accontenta, ci si rassegna, ci si adegua, assorbendo dosi piccole e grandi di veleni quotidiani. Il palato si fa più rozzo, la soglia di disagio e la capacità di indignazione si abbassano. Interrogarci sugli automatismi verbali collusi con la violenza, contrastare le cristallizzazioni provando a chiederci quale prospettiva sottintendono, sottrarci ad inerzie linguistiche apparentemente innocue, non cedere alla pigrizia di rifugiarci nelle frasi fatte e negli stereotipi sono sani esercizi di dissenso che dovremmo sforzarci di praticare il più possibile, pratiche concrete di smarcamento”.

 

*Sociologa e saggista, ha insegnato per quarant’anni all’Università di Catania nel Dipartimento di scienze politiche e sociali. Svolge attività di formatrice nel campo dell’educazione di genere. Ha recentemente pubblicato per Laterza I caratteri elementari della comunicazione, per Di Girolamo Riprendiamoci le parole, per Franco Angeli L’Italia dell’ignoranza e C’è differenza: identità di genere e linguaggi, per Settenove Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo.

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