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“Parto anonimo” e revoca della rinuncia alla maternità

Il diritto all'anonimato della madre viene meno quando questa muore, nel pieno rispetto delle leggi vigenti.

di Redazione

Con la sentenza n. 19824 del 22/09/2020, la Prima Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione ha statuito il principio secondo il quale l’azione giudiziale di accertamento della maternità ex art. 269 c.c., nel caso in cui la madre abbia esercitato il diritto al cd. parto anonimo, è sottoposta alla condizione della sopravvenuta revoca della rinuncia alla genitorialità giuridica da parte della madre, ovvero alla morte di quest’ultima, non essendovi più in entrambi i casi elementi ostativi per la conoscenza del rapporto di filiazione e così dovendosi interpretare, secondo una lettura costituzionalmente e internazionalmente orientata, la suddetta norma.

L’articolo 269 del codice civile stabilisce, ai primi due commi, che la genitorialità può essere giudizialmente dichiarata nei casi in cui sia ammesso il riconoscimento del figlio, e che la prova può essere fornita con ogni mezzo. 

Nel caso sottoposto all’esame della S.C., la maternità giuridica era stata oggetto di accertamento a seguito del decesso della madre, la quale al momento del parto aveva esercitato il diritto di mantenere l’anonimato, per poi avere compiuto in vita atti concludenti intesi a riconoscere il rapporto di genitorialità (ad es. facendo vivere il figlio presso la sua abitazione e trattandolo di fatto come tale), e ciò sino alla sua morte.

Il diritto della madre all’anonimato

Anzitutto, occorre premettere che il diritto all’anonimato della madre al momento del parto, trova il suo riconoscimento ordinamentale sia in una serie di norme, sia in forza di ripetuti interventi giurisprudenziali, entrambi volti a riservarne piena tutela. Sul versante legislativo, vengono dalla Corte richiamati l’art. 28, comma VII, legge n. 184/1983 in materia di adozioni; l’allegato del D.M. n. 349/2001, che sui certificati di assistenza al parto, stabilisce l’obbligo di indicare il codice “999” per “donna che non vuole essere nominata”; l’art. 30, comma I, D.P.R. n. 396/2000 che, in tema di semplificazione dell’ordinamento di stato civile, fa salva la facoltà della madre di non essere nominata sulla dichiarazione di nascita; infine, l’art. 93, comma I, D. Lgs. N. 196/2003 in materia di trattamento dei dati sensibili e di identificazione della madre che abbia dichiarato di non volere essere nominata al momento del parto. 

Anche la giurisprudenza della Consulta, nel riconoscere il fondamento costituzionale del diritto all’anonimato della madre al momento del parto, ha coerentemente affermato che esso possa essere esercitato dal titolare sino ad una eventuale revoca di tale scelta, ove ciò corrisponda alla reale volontà della stessa genitrice. Detta opzione, lungi dal doversi considerare come una compressione della pienezza del diritto all’anonimato, al contrario lo rafforza, ben potendo, viceversa, la previsione della irreversibilità della scelta non corrispondere all’effettivo interesse della madre, con conseguente trasformazione del diritto in questione “in una sorta di vincolo obbligatorio” (così, Corte Cost., sentenza n. 278/2013).

Da tali premesse, la Suprema Corte, nella pronuncia in commento, operando un bilanciamento di valori di rango costituzionale tra il diritto allo “status filiationis” corrispondente alla verità biologica, inteso quale proiezione del diritto alla identità personale che accompagna tutta la vita individuale senza soluzione di continuità (da qui la ratio della imprescrittibilità dell’azione di accertamento ex art. 269 c.c.), e quello della madre a mantenere l’anonimato al momento del parto, perviene a considerare quest’ultimo in posizione preminente, essendo finalizzato a tutelare i beni della salute e della vita, sia del nascituro che della stessa partoriente. 

Tale supremo diritto, tuttavia, durando per tutta la vita della genitrice, oltre a poter essere oggetto di rinuncia da parte della stessa titolare, come già esposto, si “attenua” dopo la morte di essa, per dare in questo caso prevalenza alla esigenza (costituzionalmente garantita) del figlio a rivendicare il proprio stato. In altri termini, “venendo meno per effetto della morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti alla vita e alla salute, che era stata fondamentale nella scelta dell’anonimato, non vi sono più elementi ostativi non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione (come affermato da Cass. 15024/2016 e Cass. 22838/2016), ma anche per la proposizione dell’azione volta all’accertamento dello status di figlio naturale, ex art. 269 c.c.”; norma, quest’ultima che, sottolinea la S.C., dovrà essere interpretata mediante una lettura costituzionalmente orientata alla luce degli artt. 2, 24, 30 e 117 Cost.

In conclusione, l’azione di accertamento giudiziale della maternità è pienamente ammissibile dopo il decesso della madre, sia in forza di quell’indebolimento del diritto di quest’ultima all’anonimato, sia in virtù di quei fatti ritenuti idonei a considerare superata, nella madre, l’originaria scelta dell’anonimato.

Con riferimento a tale ultimo aspetto, inoltre, la S.C. precisa che i suddetti “fatti” che fanno desumere il mutamento di scelta da parte della madre pre-morta, possono essere provati in qualsiasi modo, anche mediante il ricorso ad elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone dell’id quod plerumque accidit, risultino idonei, per attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della genitorialità: in particolare, tra le circostanze indiziarie fornite all’interprete, si menzionano a) la condotta del preteso genitore che abbia trattato come figlio la persona che reclama l’accertamento di status (c.d. “tractatus”), b) la manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali (c.d. “fama”),  infine, c) le risultanze di consulenza immuno-ematologica eseguita su campioni biologici di stretti parenti del preteso genitore.

D’altro canto, rammenta la Corte, “il principio della libertà di prova, sancito dal citato art. 269, secondo comma, cod.civ., – e riferibile anche alla maternità naturale – non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una sorta di gerarchia assiologica tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità o la maternità naturale, né, conseguentemente, mediante l’imposizione al giudice di merito di una sorta di ordine cronologico nella loro ammissione e assunzione, a seconda del tipo di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova in materia pari valore per espressa disposizione di legge (Cass. 6694/2006; Cass. 14976/2007; Cass. 12971/2012; Cass. 3479/2016)” (così, Cass. Civ., n. 19824/2020).
Avv. Giovanni Parisi

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