Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

“Oublier Palerme”. Oublier Romagnolo

di Redazione

La costa di Romagnolo è una porzione di un lunghissimo braccio che, originato da Arenella-Acquasanta, annoda la lucente baia di Palermo.

di Aldo Gerbino

La Costa Sud, posta nell’oltre Oreto, chiude il golfo d’una perduta ‘felicissima’ città di Palermo; un’area conosciuta, prima del toponimo ‘Romagnolo’, come ‘Mustazzola’: parte costiera che guarda verso oriente, attraversata, in parallelo col mare, dalla lunga e mobile ferita di via Messina Marine, l’antica “Colonnetta”, e, fino al 1959, affiancata dalla ferrovia a scartamento ridotto che collegava, dal 1886, Palermo-Corleone-San Carlo. Popolosissima via, tumultuosa per l’intenso e orientaleggiante traffico panormita, e che, allo stesso tempo, mostra il lento e inesorabile degenerare, il pervicace consumo del suo letto geologico, un andare, un implodere verso un’incerta metamorfosi. Essa si consuma, appunto, in quel collidere contro ogni etica ambientale, sociale, sfiancando deliberatamente l’ambiente, come in un nuovo, o meglio dire mai tramontato, ‘sacco di Palermo’. Un tratto urbano fuori da ogni morale, ingabbiato, – per quel suo essere estensione della città arabo-normanna, – dalla demagogia politica, dal sovraccarico criminale, dagli ingorghi della nostra modernità perfusa da un efficientismo tecnocratico. Tutto ciò è perpetrato con quella sfrontatezza propria delle congerie politiche avvicendatesi nei decenni e sempre sostenute, pur tra le mille sfaccettature, dall’incuria e dalla negligenza di buona parte dei cittadini, da stagionate contiguità malavitose. Una poliedrica esibizione di autorità politico-amministrativa, privata dai valori più elementari, suffragata dall’esercizio della dimenticanza, dalla pratica del rimandare, dall’uso di manzoniani registri azzeccagarbuglieschi a giustificare oscuri ‘commi’, legìne ad hoc, decreti ad usum Delphini, con l’affibbiare ad ignoti, a precedenti amministrazioni, ogni colpa di degrado, generando l’impossibilità di capire, così come recita un lontano titolo del poeta Edoardo Cacciatore, Ma chi è quì il responsabile?, e, per ironico sovrappeso, facendo uso di raffinate “estetiche delle macerie” in un abile camuffamento della realtà d’ambiente, magnificando a tutto tondo un ‘fare’ autoreferenziale, in cui fa capolino l’inveterata gestione “dell’appartenenza” nel noto calco democristiano.

M. Serradifalco,IlPellegrino e la baia di Palermo
Baia di Palermo

La costa di Romagnolo è, dunque, porzione di un lunghissimo braccio che, originato da Arenella-Acquasanta, annoda la lucente baia di Palermo. Quella baia che Willis Nathaniel Parker, scrittore e giornalista di Portland, l’amico dell’inquieto genio di Edgar Allan Poe, ammirava (già in quell’anno di grazia del 1836) dal ponte di un’agile fregata della Marina inglese, in rada di fronte alla Conca d’Oro mirabilmente ornata dallo sperone di Capo Zafferano e dall’elegante spalto di Monte Pellegrino. Willis subisce il fascino di tale immenso giardino coronato da monti, punteggiato da mulini ad acqua e solcato dall’Oreto ancora per poco attraversato da storioni, in cui le lavandaie palermitane, come in un documentario olio di Nino Teresi, stendevano al sole dell’aurea Conca il bucato. Quanto può esser raccolto da questa felice immagine naturalistica, sovrastata dalla guglia rocciosa di Monte Grifone e conclusa, in fondo, dal corpo acquattato del monte Catalfano trafitto dai colori brillanti delle sue orchidee selvatiche e sospinto fino al promontorio di Capo Zafferano custode di pleistocenici racconti di elefanti nani, si offre ora in una riduzione del corpo paesaggistico sia nel suo spessore, sia nel perimetro acquatico, vistosamente deturpati: battigie e rocce fagocitate dalla crescita e organificazione delle discariche, acque inquinate da scoli abusivi. Una Costa punteggiata dalla catenaria di toponimi che trasportano, fuori dal fascino insito nella loro storia, una premonitrice e curiosa inquietudine: “Bandita”, “Acqua dei Corsari”, “Sperone”, manifeste allusioni a congerie criminali, a incursioni di tagliagole, a piratesche violenze, o a luoghi della pena dove ancora son percepibili le sanguinose azioni del potere temporale e clericale: pencolamenti di giustiziati da uncini infissi in piramidi dell’orrore allo “Sperone”, forche di condannati tese dal Piano della Marina a Sant’Erasmo, scenari consegnati dal Ponte di Mare al Ponte dell’Ammiraglio (quel Giorgio d’Antiochia al servizio di re Ruggero II) sul letto di un Oreto ormai non più protetto dalla devastata chiesetta della Madonna dell’Oreto e da dove s’apriva la via Ponte delle Teste mozze (oggi, Corso dei Mille) che ben disegna un ulteriore deposito di crani caduti sotto la ferocia degli aguzzini. Ma si dice anche della pietà dilavata dalla vicina chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi a memoria della sua vocazione di ricovero e assistenza, di lazzaretto, durante i gravissimi contagi delle epidemie pestifere, tra i quali va ricordata quella che funestò Palermo nel 1575, e della quale troviamo un dettagliato resoconto nel “pestifero morbo” del protomedico Giovani Filippo Ingrassia, colui il quale arginò, col metodo del ‘barreggiamento’, l’eccessiva diffusione del morbo.

L’inizio del ’900, tra biglie lanciate nello spazio liberty dello Stand Florio (sostanziato nel depurato disegno di Ernesto Basile) contro i corpi fusati d’innocenti piccioni torraioli, o tra le poche lussuose ville, come quella del senatore Corradino Romagnolo da cui prese il nome la borgata marinaresca (abitazione scomparsa sotto i picconi demolitori per far posto all’ampliamento dell’ospedale Buccheri-La Ferla), avrebbe potuto rappresentare l’anima profonda di una periferia portatrice d’una dilatazione memoriale fatta di marinaresca vivacità cara alla gemma palermitana della Kalsa. Tale emiciclo costiero offre nel ricordo di anni prossimi: ora il minuscolo porticciolo di Sant’Erasmo, un tempo pedana di tonni deposti sulla spiaggia, popoloso di carri, di basculanti legnose imbarcazioni; oppure la sonnolente foce oretea, nel ricordo di povere botteghe di rigattieri, degli stabilimenti balneari: da Petrucci a Virzì ai Bagni Italia, con le caratteristiche palafitte ad invadere il primo tratto di spiaggia e poi il mare, ben attestati, in quegli anni Cinquanta, sul bordo tranquillo delle acque, tra lo sciabordio delle onde e il ciuffo d’acqua di ‘pietralba’ in mezzo al golfo. Anni in cui emergevano, nei periodi caldi, schiere di bimbi, fanciulli, famiglie in pasoliniani assembramenti, rannicchiati in poveri picnic acquatici, mentre sull’orizzonte scorreva il disegno oleografico d’un carretto siciliano sovrastato dalle angurie. E vi aleggiava un vitalismo scosso da affollamenti carnali simili alla copertina di Ferenc Pintér per l’ “Exodus” di Leon Uris, alla conquista di una frescura, nell’espugnazione di esili brandelli affettivi; una esposizione di corpi: un vorticare tra umili sballottamenti di giostre artigianali e struggenti, tra venditori di frutti di mare, partite a scopone, sorrisi imberbi di fidanzati tra muscoli contratti di aspiranti atleti. In questo scenario ecco i fondatori degli stabilimenti balneari, le loro danze, le architetture dei ristoranti più alla moda, come Renato visitato dalla Callas in amore, o le popolaresche trattorie, come l’Osteria della Salute, apprezzate dal futurista Federico De Maria. Ogni cosa con la loro commistione di carica umana, in un folklorismo malinconico, disperso: un grido, un brusio di ruote e anime, un rantolare di motori a scoppio, l’ondeggiare improvvido d’una Dauphine sulla carreggiata umida, stridori di ruote cerchiate, fumo di forni per laterizi in prossimità della stazione daziaria coperta dal calpestio intimo d’un funerale che scivola tra rotaie silenziose. Oggi questo turbinio s’è spento, ma certo la situazione non è migliorata; anzi essa si alimenta di quel ‘sale’ della terra che ha, purtroppo, sicula impronta: quel sentirsi, contro ogni ragione, dèi votati all’arroganza per cui ogni sopruso può essere perpetrato senza il timore di sanzioni. D’altronde i palermitani hanno dedicato un minuscolo tratto del litorale ad un luogo d’incontro, un lido il cui nome, in contrasto con le sue ascendenze proletarie, non lascia certo dubbi: Olimpo.

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