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Daniele Ciprì: “Dal virus ci salverà la cultura”

In questa intervista di Pippo La Barba, Daniele Ciprì si racconta e racconta la sua sicilianità, col rammarico di chi ama la propria terra ma deve vivere lontano per ragioni di lavoro.

di Pippo La Barba

Daniele Ciprì, noto regista e direttore della fotografia, parla a cuore aperto del cinema e delle potenzialità che ha l’arte di rasserenare gli animi in un momento di generale disorientamento

Lo psichiatra Crepet ritiene che l’attuale pandemia produca una morte esistenziale. Ci salverà la cultura?

Senza la cultura saremmo persi. La cultura è fondamentale, perché anche in questa circostanza aiuta a riflettere, a riscoprire la nostra umanità.

C’è  possibilità per il cinema e per l’arte in genere di ritornare ad avere il ruolo di prima?

Il cinema ha una funzione catartica, perché genera un salutare intrattenimento; mentre l’informazione televisiva non sempre è puntuale, spesso i talk show sono vuoti e creano pericolose deformazioni della realtà.

Il 2019 è stato per te un anno importante. Cosa ti proponi di fare in un futuro speriamo vicino?

Sì, il 2019 è stato per me molto intenso. Mi ha dato la possibilità di confrontarmi con giovani registi e grandi maestri. Proprio per questo ho rimandato la mia nuova opera di regista. Io un film lo debbo sentire. Certo me lo posso permettere,  perché faccio anche il direttore della fotografia e questo mi consente tutto il tempo possibile per realizzare l’idea del film che ho in mente.

Quale importanza hanno nel cinema immaginario e sperimentazione?

L’immaginario è l’idealizzazione del quotidiano, quindi è un ingrediente importantissimo nel cinema d’autore. Se prendiamo Hitchcock vediamo che con il cinema ha esorcizzato le sue fobie creando dei capolavori. Così come tanti altri registi, che hanno  trasfuso nei  film il loro universo poetico e immaginifico. La sperimentazione è  ricerca di strade nuove, in definitiva  ricerca di identità.

Tu che hai fatto entrambe le cose, quale differenza ravvisi tra regia e fotografia?

La fotografia è principalmente tecnica, ha poco di creativo. Come direttore della fotografia lavoro per realizzare immagini di un immaginario altrui. Il lavoro di regista è invece un sogno, un qualcosa che va al di là della tecnica, dove impegni tutto te stesso, la tua visione del mondo.

 Cosa hanno rappresentato per te i quindici anni con Franco Maresco nel cinema e nella TV?

Un percorso proficuo, ma anche un ciclo che si è chiuso. Che però resterà nella storia della filmografia italiana. Negli anni novanta io e Franco abbiamo rotto  lo schema oleografico che voleva una Sicilia letteraria anzichè reale. Abbiamo dato spessore a personaggi che, prima di essere rappresentati nella satira, erano reali.

Perché la Sicilia, che pure è un set a cielo aperto, non è riuscita sinora a far decollare un’industria cinematografica?

Il territorio siciliano indiscutibilmente si presta moltissimo alle location cinematografiche. Ma bisogna distinguere: riprendere in Sicilia è un conto, ambientavi le storie è un altro. Certo artisticamente si potrebbe creare una sorta di “Trinacria cinematografica” come io racconto in “Cagliostro”. Ci sono stati diversi tentativi in tal senso, ultimamente quello di Alessandro Rais con Film Commission, ma sono tutti falliti. Non saprei dirti perché. Anche io e Maresco, che trattavamo temi tipicamente siciliani, per realizzare le nostre opere siamo stati costretti a rivolgerci a produzioni del Nord. 

Secondo te la passione per l’arte può essere così totalizzante da far passare in seconda linea qualsiasi altro interesse?

Posso risponderti soggettivamente che per me non è così. Ho sempre pensato che l’arte fa parte della vita. Specialmente nel cinema, se sei un regista o un autore, sei costretto a confrontare il tuo immaginario con il reale osservando continuamente ciò che accade nel quotidiano.

Quale il tuo rapporto con la sicilianità? Ritieni veritiero il proverbio siciliano “Cu nesci arrinesci”?

Io voglio vivere nella mia terra, anzi nella mia città, che mi da imput, idee  e così via. Le altre città sono di appoggio. La Sicilia è perdente perché non c’è attività. Io con il mio lavoro mi sposto continuamente e vivo a Roma come punto di  riferimento, perché mi consente di spostarmi con facilità. Se abitassi a Palermo dovrei prendere sempre l’aereo. Ma il mio cuore batte per la mia Palermo dove ritorno quando posso.

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