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Il valore probatorio della firma apposta sulla busta paga

Le buste paga firmate dal lavoratore con la formula “per ricevuta” provano solo la loro avvenuta consegna, ma non anche l’effettivo pagamento

di Dario Coglitore

Com’è noto la busta paga altro non è che un documento contenente informazioni essenziali volte a mettere il lavoratore in condizione di verificare l’esatta determinazione della propria retribuzione e può essergli consegnata mediante copia cartacea, e-mail oppure con la messa a disposizione del Lul all’interno di un’area riservata su di un portale aziendale.

La busta paga, una volta consegnata, normalmente viene sottoscritta dal lavoratore ma la firma da questi apposta per ricevuta del documento non prova anche la ricezione della retribuzione spettante.

L’obbligo, previsto a carico del datore di lavoro dall’art. 1 della L. n. 4 del 1953, di consegnare ai lavoratori dipendenti all’atto della corresponsione della retribuzione un prospetto contenente l’indicazione di tutti gli elementi costitutivi della retribuzione, non attiene alla prova dell’avvenuto pagamento, per la quale non sono sufficienti le annotazioni contenute nel prospetto stesso e qualora il lavoratore ne contesti la corrispondenza alla retribuzione effettivamente erogata, l’onere dimostrativo di tale discrasia può incombere sul lavoratore soltanto in caso di provata regolarità della documentazione liberatoria e del rilascio di quietanze da parte del dipendente, spettando in caso diverso al datore di lavoro la prova rigorosa dei pagamenti in effetti eseguiti.

“Per ricevuta” indica solo l’avvenuta consegna

Al riguardo la giurisprudenza afferma che le buste paga firmate dal lavoratore con la formula “per ricevuta” provano solo la loro avvenuta consegna, ma non anche l’effettivo pagamento, la cui dimostrazione è rimessa al datore di lavoro attesa l’assenza di una presunzione assoluta di corrispondenza tra quanto da esse risulta e la retribuzione effettivamente percepita dal lavoratore il quale può provare l’insussistenza del carattere di quietanza delle sottoscrizioni eventualmente apposte (v. Cass. lav. n. 13150 del 24/06/2016).

Soltanto la sottoscrizione apposta dal dipendente sui documenti fiscali relativi alla sua posizione di lavoratore subordinato – CUD e mod. 101 – costituisce quietanza degli importi ivi indicati, come corrisposti da parte del datore di lavoro, ed ha il significato di accettazione del contenuto delle dichiarazioni fiscali e di conferma dell’esattezza dei dati ivi riportati (v. Cass. lav. n. 245 – 11/01/2006)

Vietati i pagamenti in contanti

I citati principi sono stati recentemente ribaditi da Corte di Cassazione con l’Ord. n. 21699/2018 la quale ha dato attuazione alla L. n. 205/2017 (Legge di Bilancio 2018).
Tale normativa vieta infatti il pagamento in contanti delle retribuzioni e afferma definitivamente che la firma sulla busta paga non costituisce prova dell’avvenuto pagamento, ma solo dell’avvenuta consegna del documento (“la firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione”).

Al riguardo, l’art. 1, co. 913 legge cit. ha previsto anche un regime sanzionatorio espressamente specificando che al datore di lavoro o committente che viola l’obbligo di retribuire il dipendente in maniera telematica, deve applicarsi una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da 1.000 euro a 5.000 euro.

Busta paga o estratto conto bancario?

In conclusione, se il dipendente lamenta di non aver mai ricevuto la retribuzione o di averla ricevuta parzialmente, il datore di lavoro non potrà difendersi producendo le buste paga recanti la sottoscrizione del lavoratore (con la dicitura “per accettazione” o “per ricevuta” o “per quietanza”) al fine di dimostrare il contrario.
La prova dell’adempimento dell’obbligo dovrà infatti consistere nell’estratto conto bancario o nella ricevuta del bonifico o di altro strumento elettronico di pagamento utilizzato dal datore di lavoro.
Avv. Dario Coglitore

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