Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalisti indipendenti

La violenza di genere e il lavoro psicologico

Un'esperienza clinica: l'importanza della Rete e il ruolo nodale della Prevenzione primaria. Intervista alla psicologa Angela Ganci

di Joey Borruso

La violenza di genere, ovvero tutti quegli atti persecutori e violenti (siano essi verbali, psicologici, economici o fisici) perpetrati sulla base di una differenza di genere, è sempre più, purtroppo, al centro delle cronache. Ma quali i meccanismi psicologici dietro a tali atti? Ne abbiamo parlato con la psicologa Angela Ganci.

Dottoressa quali conseguenze ha la violenza per chi la subisce?
“La violenza, sia essa direttamente subita che nelle forme della violenza assistita, comporta gravi e durature conseguenze a differenti livelli, esistenziali, cognitivi, comportamentali, emotivi.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2003) definisce la violenza come “l’uso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, altre persone o contro un gruppo o una comunità, da cui conseguono con un’alta probabilità lesioni, danni psicologici, alterazioni nello sviluppo o privazioni, se non la morte”. Questo approccio sottolinea come la violenza non si limiti all’uso della forza fisica, ma includa anche forme di abuso che colpiscono il benessere psicologico e sociale della vittima, da qui l’ampliamento del concetto di violenza ai suoi aspetti relazionali (Werner & Crick, 1999; Knight et al., 2018; Lausi et al., 2024).
Questo approccio allargato della definizione di violenza riconosce che la violenza non è sempre visibile o tangibile, ma può colpire la vittima in modo subdolo e psicologicamente devastante. Questo rende necessario comprendere le dinamiche relazionali che possono favorire la violenza, come la disuguaglianza di potere, il controllo e la manipolazione”. 

Violenza di genere e aggressività

Cosa rappresenta la violenza per chi la attua? 
“Interessante, a mio parere, evidenziare in questo contesto come la maggior parte degli psicologi sociali definisca la violenza come una forma particolarmente intensa di aggressività, caratterizzata dall’obiettivo di infliggere gravi danni fisici, come lesioni severe o la morte (Anderson & Bushman, 2002; Bushman & Huesmann, 2010; Huesmann & Taylor, 2006). Nella violenza l’intenzione è più rilevante dell’esito: un’azione è violenta se mira a causare gravi danni, indipendentemente dal fatto che riesca o meno a farlo (Allen & Anderson, 2017)”.

Come deve comportarsi lo psicoterapeuta in questi casi?
“Compito specifico del clinico è certamente quello di valutare le dinamiche presenti al momento della richiesta di aiuto, attraverso quell’ascolto attivo indispensabile per cementare un’alleanza terapeutica che permetta di agire con strumenti di carattere terapeutico, in setting individuale o gruppale, altresi sensibilizzando le Istituzioni sui campanelli d’allarme che segnalano la messa in atto di comportamenti discriminatori a danno di minori, donne, omosessuali.
In tale contesto è essenziale “dare valore a ciò che le donne portano in terapia e ai loro vissuti”, agevolando appunto quell’alleanza terapeutica alla base di ogni terapia, e attivando ogni risorsa sociale utile per contrastare isolamento e resistenze alla denuncia.
Un compito che si scontra con la naturale resistenza alla denuncia stessa della violenza da parte della donna, sovente per l’autoconvincimento di “Meritarsi quelle umiliazioni”, figlie di una misoginia introiettata, e per la paura di ritorsione sui figli”.

Può parlarci di un caso clinico che ha seguito nella sua attività?
“In merito a questo specifico aspetto riporto in questa sede uno stralcio di seduta emblematico delle difficoltà insite nell’agire terapeutico, proporrò una mia ipotesi sul fallimento del progetto di cura sempre nell’ottica ideale di una visione preventiva che riduca la gravità del problema e della messa in atto di una collaborazione e di una Rete di servizi a sostegno delle vittime.
M.(nome di fantasia) accede per una consulenza lamentando gli atti molesti del marito e l’invadenza della suocera anche in presenza dei figli minori.
Colpisce la gravità degli atti raccontati (il marito era solito schiacciarle le dita dei piedi provocandole ematomi per punirla di uscire con le amiche, cosa che “non farebbe una buona madre”) e una lamentela blanda, una giustificazione degli atti con la speranza di un cambiamento se “io mi fossi comportata bene, lui non mi avrebbe trattata così”.
Racconti tipici sennonché anche a cospetto dei figli minorenni, M., pur mostrando alla sottoscritta il filmato delle urla contro i due figli, negli oltre due mesi di consulenza, non manifestava una chiara volontà di separarsi quanto un momento di sfogo in terapia in quanto luogo coperto dal segreto professionale.
Ecco che, sulla mia richiesta di focalizzarsi sulle sedute, “impegnandosi due volte a settimana” al fine di pensare a un netto allontanamento fisico che scongiurasse il precipitare di violenze irreparabili, M. decide di sospendere le consulenze, non sentendosi “pronta”, temendo pur tuttavia “per l’incolumità dei figli”, e riconoscendo di avere “tutti contro”, inclusa la stessa madre.
Ora immediatamente viene in mente la teoria del campo di Kurt Lewin ed è su questa che si basa la riflessione su tale esito terapeutico. E, a ben vedere, non sarebbe corretto parlare di fallimento poiché davvero tante e di forte intensità erano le “forze” attive nel campo, la noncuranza della madre, la forte tendenza giustificazionista sul marito e il suo operato, l’assenza a tappeto di figure “motivanti” quali amiche o parenti stretti.
Figure talmente significative da indebolire predittivamente le “forze del cambiamento”, meno salienti, quale il legame terapeutico e quel lavoro di Rete necessario per uscire dal Teatro della Violenza; c’è peraltro da aggiungere che in quel frangente il marito alternava particolari momenti di “dolcezza”, seguendo un collaudato ciclo di abuso narcisistico, che aveva reso molto complicato un lavoro di cooperazione in seduta. Insomma, se il carnefice era presente sabotando la seduta, molto di meno lo erano, nella mente di M., le possibilità di ribellarsi fino a preferire un “sopportare” fino a un “esser esagerata” perché “le cose cambieranno” in nome di “una famiglia unita”. Un pensiero imbattibile, dall’amaro sapore trigenerazionale.

Una rete di supporto contro la violenza di genere


Si tratta sicuramente di una storia unica e particolare, ma importante per comprendere quale sia l’impegno richiesto allo psicologo che deve munirsi di tutte le risorse presenti nella Rete.
Utile, nel caso di M., sarebbe infatti stata una più solida Rete di supporto amicale, anche di una sola amica o di un fratello o sorella oltre che della propria madre, in assenza della quale la terapia era destinata a sciogliersi anzitempo, benché sia nello specifico da attenzionare Quel “non essere pronta” dichiarato che, unito all’estrema povertà sociale del caso in questione, sono da considerarsi elementi critici da contrastare per un buon esito del processo di cura. Tanti i canali attivabili, non ultimo lo strumento del gruppo terapeutico, dell’assistenza legale, dei servizi sociali, come supporto a una struttura sociale carente e a un’autostima debile che sostenga la donna nella presa di coscienza della resilienza insita in ogni vittimizzazione. Strumenti non attivabili nel caso di M., ma solitamente armi vincenti, il che spinge a una riflessione davvero importante: la necessità di una prevenzione primaria e il solidificarsi di una cultura del rispetto reciproco che faccia vedere gli atti violenti quali sono in realtà. Violenze inaccettabili, messi in atto da sistemi di pensiero misogini da contrastare alla radice affinché non si debba ancora, nel 2025, sentire dire “me lo sono meritata”, frase  distruttiva, segno di una violenza autoinflitta che rende quasi impenetrabile la consapevolezza della Banalità del Male”.

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