Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

Le “Storii” di Oriana Civile

Tra musica e cultura, la ricerca di sonorità e storie di Oriana Civile (nella foto di copertina) per un album che è un concentrato di tematiche importanti, come la storia di Attilio Manca, vittima di mafia ancora oggi, dopo 18 anni, in attesa di giustizia.

di Clara Di Palermo

C’è una ricerca minuziosa di sonorità e contenuti nell’album Storii di Oriana Civile, album che uscirà il prossimo 17 giugno. Intanto, possiamo godere del bellissimo Unni Sini, brano, cantato in lingua siciliana, primo estratto da Storii e che segna l’esordio da cantautrice dopo due album di riproposta di brani tradizionali.
Storii, che esce per l’etichetta Suoni Indelebili ed è distribuito da Ird, è un album di racconti dalle sonorità minimaliste e di grande impatto grazie anche al carisma interpretativo della Civile. È stato registrato in presa diretta come un live in studio.

Racconti di storie

A comporlo, come indica il titolo, una manciata di storie. Storie personali e storie collettive. Storie individuali e storie universali. Tredici brani in tutto che si aprono con una canzone il cui testo è una poesia dell’avvocato Pippo Mancuso, tratta dal libro Malu Tempu – strofe strofacce aneddoti.
Unni Sini (dove sei) è un inno alla solitudine, compagna inseparabile e fondamentale nella vita e soprattutto nel momento della creazione. Uno stato di grazia che si evolve in un atto di autoerotismo femminile, in cui lui (o lei) diventa una immaginaria presenza che lascia spazio alla fantasia erotica più di quanto farebbe in un reale contatto.
Un’artista dalle mille sfaccettature, dunque, con una carriera ben strutturata che l’ha portata, tra le altre cose, ad aprire il concerto di Noa e Gil Dor, in occasione della XXIII edizione del Capo d’Orlando in Blues Festival, e che l’InchiestaSicilia ha voluto intervistare.

Questo nuovo lavoro è una raccolta di storie, come sono state scelte?
“Mi sono ispirata alla Sicilia per scrivere quest’album, terra straripante di luce e, proprio per questo, carica di ombre. Terra di contraddizioni, dove il bene e il male convivono in una visione quasi schizofrenica della realtà. Sono storie che parlano del mio mondo, il mondo che mi ha dato i natali (i Nebrodi) che poi è il mondo che io ho scelto di abitare da persona adulta per la semplicità e il senso di comunità che lo caratterizza. Ci sono storie che raccontano leggende e modi di dire che stanno rischiando di scomparire perché le giovani generazioni (a partire dalla mia) li sconoscono completamente. Altri brani cercano di spronare la gente che vive in questi luoghi a prendersene cura, valutando con obiettività la ricchezza, materiale e non, presente sul territorio, senza cercare altrove la propria fortuna. Ho scelto anche di parlare della prepotenza del più forte sul più debole, dell’immigrazione, della distrazione, dell’autoerotismo femminile (argomento ancora troppo spesso considerato tabù) e, naturalmente, della mafia, dai più considerata come un fenomeno lontano nello spazio e nel tempo che, però, è più vivo e fiorente che mai e ci riguarda tutti, non solo noi siciliani purtroppo. Inoltre ho cercato di risolvere, a modo mio, la spinosa diatriba del sesso dell’arancin*; chissà che non si riesca a riappacificare gli animi”.

C’è una di queste storie che lei sente più vicina?
“Naturalmente le sento tutte molto vicine, ma ce ne sono due a cui tengo in modo particolare: Attilio Manca e Claudio e Luciano. La prima ha come sottotitolo Lamentu pi la morti di Attilio Manca ed è una sorta di lamentazione funebre che la madre dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto rivolge al figlio, vittima innocente di mafia e in attesa di giustizia ancora dopo 18 anni. L’altra parla dei fratelli Claudio e Luciano Traina; Claudio, agente di scorta del Giudice Paolo Borsellino, saltato in aria nella strage di Via d’Amelio, e Luciano, suo fratello, agente della Sezione Catturandi della Squadra Mobile di Palermo fino al 20 maggio 1996, data della cattura del latitante Giovanni Brusca. È davvero complicato spiegare le loro assurde vicende qui, in questa intervista, per cui invito tutti i lettori ad approfondirne la conoscenza cercando le loro storie sul web e a manifestare la loro vicinanza a mamma Angela Manca, a Luciano Traina e a tutte le famiglie vittime di mafia che hanno tanto bisogno di noi, la società civile”.

Teatro, musica, studio approfondito delle tradizioni musicali siciliane: quale aspetto è prevalente nella sua personalità?
“Nella mia personalità sono innatamente prevalenti la musica e il teatro, ma nei miei interessi prevale sicuramente lo studio delle tradizioni musicali siciliane. È una materia che mi appassiona tantissimo ancora oggi, dopo decenni di studio e di riproposta. Non si finisce mai di imparare e di scoprire nuove perle da riproporre al pubblico e da inserire nel mio personale bagaglio culturale. È un sapere ricco di insegnamenti e di valori sinceri e profondi a cui fare riferimento nella vita di tutti i giorni. Sarà perché vengo da una famiglia di contadini (i miei nonni lo erano) e quindi ho vissuto e ancora vivo esperienze legate alla terra e alla fatica che comporta, ma sento un’attrazione fortissima nei confronti di questo mondo estinto quasi del tutto ma dal quale noi, uomini dell’epoca moderna, abbiamo ancora tanto da imparare. La musica di tradizione orale siciliana poi è poesia pura e riesce a far vibrare davvero le corde del cuore, scalfendo anche gli animi più induriti”.

C’è qualcuno a cui si è ispirato per la sua vita artistica?
“Durante i miei primi anni di vita i miei idoli erano Mina e i Matia Bazar. Sognavo guardando Sanremo. Durante l’adolescenza è arrivata Janis Joplin, accompagnata dai Led Zeppelin, i The Doors Aretha Franklin e i Blues Brothers. Semplifico per amor di sintesi. Ad un certo punto le mie fonti di ispirazione sono diventate Annunziata d’Onofrio e Tindara Amalfi, l’una anima musicale di Caronia (ME) e l’altra di Santa Lucia del Mela (ME) interprete del canto detto a la Santaluciota. Le ho sentite per la prima volta nel Laboratorio di Etnomusicologia tenuto dal Professore Girolamo Garofalo all’Università degli Studi di Palermo, tramite le registrazioni effettuate e pubblicate nel 1985 dal Folkstudio di Palermo. Da allora me ne sono innamorata follemente e le tengo sempre nel mio cuore”.

Quello che fa oggi, la appaga e la rende felice? E se non un’artista, cos’altro avrebbe potuto essere Oriana Civile?
“Quello che faccio oggi è quello che sognavo di fare da grande quando ero una bambina. Non si può chiedere di meglio. Certo, non è facile, soprattutto vivendo in Sicilia e ancor di più in un piccolo paese, ma è una mia scelta. Ho vissuto 12 anni a Palermo; ad un certo punto mi è mancata la mia dimensione e il senso di appartenenza ad una comunità; così sono ritornata a Naso e, da qui, mi sposto per lavorare, anche se spesso e volentieri mi spendo direttamente sul territorio che ha bisogno di energie e competenze specifiche. La vita del piccolo artista in Italia è faticosissima; non c’è alcun sostegno e l’Arte non viene considerata come un vero lavoro. Ancora oggi, quando mi chiedono “Che lavoro fai?” e io rispondo di essere una musicista, la gente mi chiede:”Sì, ma di lavoro?”. Nell’immaginario collettivo non esiste l’eventualità di guadagnare e vivere facendo musica (pagando anche le tasse), per cui perfino i committenti sono spesso restii a corrispondere cachet dignitosi e spesso ci si ritrova a dover contrattare sul prezzo o a dover “competere” con gente che ha il cosiddetto posto fisso e per hobby suona facendosi pagare due lire rovinando così il mercato a chi ha fatto una scelta di vita ben precisa e più rischiosa. Insomma, quello che faccio oggi mi appaga tanto, ma potrebbe appagarmi ancora di più. Cos’altro avrei potuto essere? Devo dire che, finito il liceo, tutti mi dicevano che “con la musica non si campa” e così me ne sono convinta anch’io e ho deciso di smettere di cantare; sarei diventata una criminologa. Ho resistito 4 anni, ma poi la passione è esplosa e ho fatto la rinuncia agli studi del corso di laurea in Psicologia”.

Conosciamo un po’ meglio Oriana Civile: qual è il suo libro preferito? E il film?
“Credo che questa sia la domanda più difficile del mondo. Esistono così tante produzioni che sceglierne una mi risulta quasi impossibile. Se poi penso a tutti i libri che ancora devo e voglio leggere o a tutti i film che ancora devo o voglio vedere, mi veni u friddu. Ci provo però. Mi perdonerete se mi allargo un po’, vero? Due libri adoro e non saprei scegliere tra l’uno e l’altro, così ve li dico tutti e due; uno è Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino e l’altro è L’Agnese va a morire di Renata Viganò (ecco che emerge la partigiana che è in me, presidente di una sezione ANPI). Amo Andrea Camilleri, la sua lingua, il suo pensiero e i suoi insegnamenti. Se mi permettete però devo aggiungere anche la trilogia di Tea Ranno: L’amurusanza, Terramarina e Gioia mia, un vero capolavoro contemporaneo. Per quanto riguarda il film credo che Nuovo Cinema Paradiso sia quello che ho visto più volte in assoluto e che rivedo con beatitudine e commozione ogni qualvolta mi si presenta l’occasione”.

Oriana Civile e la cucina

Un piatto al quale non potrebbe rinunciare? Lei ama cucinare?
“Non potrei mai rinunciare alle costolette di castrato, un prodotto tipico della mia zona da arrostire rigorosamente sulla brace. Ne sono una divoratrice e spruppari (spolpare con le mani) è una mia specialità. Adoro anche il brodo di gallo, ma il gallo (non pollo) dev’essere rigorosamente allevato in casa. È il piatto delle feste e, in famiglia, tutti sanno che la zampa (noi lo chiamiamo il piede) tocca a me, sempre perché spolpare è la mia specialità. Va fatto pulito pulito. Certo, chi non l’ha mai neanche visto adesso storcerà il naso; chi è cresciuto in campagna invece mi capirà. So cucinare e amo anche farlo, per gli amici soprattutto; il problema è che sono cresciuta con una madre che in cucina è una maga, per cui il confronto è spesso impietoso, ma onestamente me la cavo.

Pari opportunità e identità di genere: quali insidie si nascondono dietro queste definizioni.
“La Costituzione della Repubblica Italiana, come sempre, ci indica la via in maniera chiara e inequivocabile. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (Art. 3). E, andando avanti, ci chiarisce sempre meglio come va attuata la parità tra tutti i cittadini. Cosa c’è di complicato? Perché fatichiamo ancora ad accettare una donna ai vertici di aziende o amministrazioni o, peggio ancora, un gay o un transessuale? O una persona con disabilità? E un nero? Non parliamone neanche! Ancora oggi, secondo me, l’insidia maggiore è la non applicabilità nella vita reale dei dettati costituzionali che spesso rimangono colpevolmente lettera morta, definizioni sterili che perdono di significato ogni giorno di più proprio nella vita quotidiana del Paese. Questo è un delitto!”

Non bastano le “quote rosa”

“Concetti fondamentali per una società che possa dirsi realmente civile sono ben lontani dall’essere attuati in Italia – conclude Oriana Civile -, per un evidente predominio del patriarcato in termini sociologici e una paura del “diverso” ancora troppo radicata nel sentire comune. La questione non si risolve, a mio modesto modo di vedere e semplificando, con il sostantivo declinato al femminile o con le quote rosa. Bisogna semplicemente eliminare, nella concezione mentale della società, la distinzione tra i sessi, gli orientamenti sessuali, le razze, le condizioni personali, e bisogna solamente iniziare a pensare alla persona come facente parte dell’Umanità, assecondandone inclinazioni, attitudini e predisposizioni che siano scevre da sovrastrutture e pregiudizi. Una società che ha ancora bisogno di ribadire che la donna è uguale all’uomo, che il nero è uguale al bianco, che l’amore non ha confini, che il merito deve prevalere su tutto è, senza mezzi termini, una società malata.

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