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Palazzo Chiaromonte – Per acque Meridiane

A Palazzo Chiaromonte Steri, la “Quadreria Mediterranea”, fortemente voluta da Magnifico Rettore Roberto Lagalla...

di Redazione

Università di Palermo: Una Quadreria del contemporaneo allo Steri

 

 di  Aldo Gerbino 

È nel vasto pianoro della palermitana Marina, “dov’era l’ingresso del mare” (per usare evocative parole dell’arabista Salvatore Morso), che ha sede lo Steri, l’antica residenza dei Chiaromonte, il Regio Hospicio del 1392. Edificato a sud ovest rispetto al porto della Cala, – in quell’area compresa tra la ‘platea marittima’, il mare, le mura della città, nella prospettiva della scomparsa duecentesca parrocchia di S. Nicolò dei Latini,– l’attuale Rettorato universitario, annovera tra i principali ambienti la Sala Terrana o delle Armi, che ebbe, forse, l’ufficio di accogliere udienze ed assemblee. Sede del Sant’Uffizio (1601), proprio in questa Sala furono organizzate le Carceri Filippine, temibile spazio per i reclusi dell’Inquisizione panormita le cui pitture parietali testimoniano della crudeltà e della pena. Ristrutturato nei primi anni Settanta del secolo scorso su progetto di Roberto Calandra e consulenza di Carlo Scarpa, esso si offre al momento articolato in tre aree: la “Quadreria Mediterranea”, fortemente voluta da Magnifico Rettore Roberto Lagalla, e i segmenti per mostre temporanee e “segni” dipinti dei segregati.

La “Quadreria Mediterranea” del Complesso Monumentale accoglie quel sobrio patrimonio d’arte contemporanea distribuito, nel tempo, in vari ambienti del Palazzo Chiaromonte, con opere acquisite nei trascorsi decenni fino alle ultime donazioni. Esse caratterizzano, pur nella casualità delle estetiche, indicatori evolutivi d’una pittura maturata in ambito mediterraneo, con un punto focale di altissimo livello: La Vucciria di Renato Guttuso, recentemente spostata dalla Sala delle Armi alla Sala Magna del Rettorato. Quest’opera (1974) incarna “suoni, luci, voci” rilevati dallo stesso Guttuso; ma son voci (od echi) capaci di ricongiungersi ad una polifonia più estensiva del tessuto pittorico, pronto a restituire, amplificare, ora in questa ritrovata locazione già indicata dal Maestro, la magnifica narrazione pittorica del soffitto ligneo. Un racconto unitario scritto nel corso d’una lunghissima pagina siciliana dipanatasi per settecento anni e in cui medievali e contemporanei raccordi cromatici, per caso o per volontà di fato, ricongiungono l’oggi e il Basso Medioevo. Il dialogo tra le artigianalità di Cecco di Naro, Mastro Simone da Corleone e Pellegrino Darena da Palermo, in virtù della loro esuberanza “popolaresca”, tesa, anche, nel solco della decorazione aniconica, si allaccia, così, all’intima maturità commista al furore vitalistico dell’opera guttusiana. Una “ferita mortale” offerta da Guttuso, aperta, però, a quella “sintesi di vita e cose entrate a far parte dell’umano scenario”, il tutto travasato in quel ‘piceo fondale’ rilevato dall’accesa e moderna sensibilità di Cesare Brandi.

Sergio Ceccotti
– Sergio Ceccotti, Musée imaginaire VIII, 1992 (olio su tela, cm 81×100; Ph E. Brai)

Le opere che conversano con tale portato, ora in virtù di artisti legati, come Nino Garajo, da profonda amicizia col Maestro di Bagheria o con autori di prestigio, offrono spunti inequivocabili sulla persistenza e consistenza dell’idea mediterranea. Esse si potenziano nel magistero pittorico e intellettuale di Filippo de Pisis, i cui ‘grumi cagliati’, offerti nell’alveo della biologia esistenziale dall’ineguagliabile “botanico flâneur”, definiscono, la poetica del dipinto C’est n’est pas tout  del 1949. Dalla linearità della Strada (1955) di Ottone Rosai (l’amico di Papini formatosi nelle spire della «Voce» e di «Valori Plastici») si approda al ramage naturalistico dello Studio di cavoli del 1945 di Giovanni Omiccioli, e, da questo lucido esponente della “Scuola Romana” (firmerà, con Guttuso e Mafai, la prima testata dell’«Unità»), si tocca l’elegante vigore espressivo del Vaso con Fiori N.1 (1962) di Sebastiano Milluzzo e i due dipinti floreali, del 1956 e del 1961, di Nino Garajo: Pentola con papaveri e margherite e Vaso con papaveri, per lambire quel realismo naturalistico di Gianbecchina addensato in La “carrubella” di Chiusa del 1967/8 e fuso nella sua elegia geometrizzante. Con l’opera di Joaquín Vaquero Palacios, l’Eretteo del 1950, viene consegnata, in sintesi, la densa e abbacinata perennità mediterranea; poi, nel Musée imaginaire VIII (1992) di Sergio Ceccotti, tra rimandi classici e severiniani spiragli, tra offerte paesaggistiche e astrazioni, si coagula il senso di fissità e d’impalpabile ironia, e, con la Finestra sul Mediterraneo (2010) di Enzo Nucci si accetta il dono di un’esemplare apertura alla luce.

La catenaria di opere continua con: Pedro Cano, Ercole Pignatelli, Giovanni Iudice, Tino Signorini, Aldo Pecoraino, Salvatore Caputo, Francesca di Carpinello, Liliana Conti Cammarata, Gigi Martorelli, Maurilio Catalano, e lavori incisi di Nino Cordio e Piero Guccione, fino alle recenti acquisizioni: Il ritratto dell’Avvocato Zelfino (1968) di Nino Garajo e Maschio di Cetonide (2008) di Rosario Tornese. Un muto e armonico raccordo sembra unire queste ‘voci’, in cui dilavano, in forma di respiro intimo, le tiepide acque meridiane.

 

 

 

 

 

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