Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

Publifoto ed Enzo Brai: nei ‘fatti’ di Palermo, nelle ‘cose’ di Sicilia

di Redazione

 

di Aldo Gerbino

Un’immagine di Enzo Brai targata anni Sessanta traccia, in drammatica sintesi, la condizione urbana e umana d’una Palermo che, nella misura del degrado sociale, potrebbe accostarsi a quei dagherrotipi di fine Ottocento raffiguranti condizioni di raggelante povertà ed etisia morale tipiche di un indigente e stremato ceto sociale palermitano. Il nucleo focale è rappresentato dal Cortile Cascino, luogo a ridosso della Porta d’Ossuna adagiata sull’ipogeo paleocristiano, con, alle spalle, la svettante traccia piramidale di Porta Nuova, e, più in basso,  la voragine dei Danisinni. Le nove figure nel loro plastico dinamismo sembrano potenziare  fame e sete d’una intera città dai redditi infimi, arsa, in quel tempo, da evidente carenza d’acqua, per riportandoci al canto di quel Peppe Schiera che si gloriava di appartenere, ineluttabilmente, all’inesausto “Partito del Pitittu”. A tale malessere sociale fanno da contraltare le ultime frange dell’emigrazione siciliana verso le aree industrializzate del Nord dell’Italia, della Germania, o verso le tristemente famose miniere del Belgio, con scure figure destinate ai treni, a quel Lu trenu di lu suli: «Turi Scordu, surfararu, / abitanti a Mazzarinu; / cu lu Trenu di lu suli / s’avvintura a lu distinu», come, opportunamente, scriveva Ignazio Buttitta, o all’imbarco nel ‘vapore’ per Napoli o Genova, o sospinti a trovare posto in quegli avanzi di lavoro offerti da parenti e amici: chi negli U.S.A., chi in Australia. Valige e cuore male in arnese, bimbi avvolti in bianche mantelline, occhi turgidi di lacrime, e, sullo sfondo, altre foto, consegnate da Enzo, d’una Palermo costellata dai segni profondi delle bombe (ciò non stupisce, se, ancor oggi, sono visibili, forse unica città d’Europa, tali ferite), tra le rovine del rione San Pietro, o lungo un Foro Italico abitato da povere giostre rumorose, o rombanti pozzi della morte. E ancora uomini, donne e bambini in pellegrinaggio per la via pietrosa del monte verso la grotta della Santuzza, o ripresi nei  popolosi mercati i cui vessilli di panni e lenzuola stesi tra i solchi delle strette vie costituivano naturale refrigerio al brusio popolare o al vocio insistente dei venditori per gli sdrucciolevoli bàsoli, oppure confusi tra vendite di usati indumenti americani, variopinti tessuti cretonnes e pezze chiare di madapolam, a ridosso della piazzetta Ballarò. Non mancano quei segni d’una artigianalità e di una pratica di mestieri che sono stati marchio d’una Palermo ormai chiusa dal tempo: venditori di coppole, di ceste, arrotini, cordai, acquaioli, ‘venditori di fortuna’ (addivina vintura) armati di trombette e pappagallini che dalla loro scrostata gabbietta beccuzzavano l’oracolare foglietto colorato del pianetino’ (idea attribuita ad un tal Giuseppe Pennaroli, signore dell’editoria popolare ricordata da Antonino Uccello) benaugurante un’incondizionata fortuna, magari concludendo: “Vivrai 80 anni”. Poi, con Enzo, ecco l’incantevole foto del povero magazzino di stoffe: una nube di tulle bianchissima, una sorta di crisalide in cui sembra sopravvivere il fuoco sopito di altra nascosta povertà, ma anche semi di una speranza concentrata nel volto deciso del gestore, pronta a capovolgere di colpo l’esiguità materiale di quei giorni, come dello stesso bianco è tramato il volto fragile della fanciulla intenta al ricamo in punto filet nell’attesa di adornare un altare. Ma su tutto vibra il canto sommesso, malinconico, della scomparsa del mondo agropastorale segnato, qua e là, dai cartelli dell’ERAS (Ente per la riforma agraria in Sicilia), accompagnato dal corteo del mondo del lavoro eterogeneo, vivace, liricamente dolente: panificatori, pescivendoli, raccoglitori di cotone, gelatai ambulanti, improvvisati diffusori di musica in carrettini trainati da asini mesti quasi imprevedibilmente consapevoli della loro missione, carradori tra fumi di vapori e mamme prolifiche, prostitute e danze dionisiache di laceri bambini, cortei di feste patronali  e modeste esposizioni in piazze dove occhieggia un rude manifesto col nome dell’insuperato Totò. Si affiancano, inoltre, venditori di ‘bummuli’ alla Cala, ‘panellari’ in friggitorie ambulanti e distese curvilinee di angurie ai mercati ortofrutticoli, tessitrici, improvvisati bagnanti tra gli scogli della costa sud di Romagnolo con le tracce della linea ferrata a scartamento ridotto che da Corleone portava a Sant’Erasmo. Non mancano gli entroterra metafisici a lambire le balze madonite, o le rosse distese d’erba lupina dell’area nissena, e, su tutti, i cieli della Sicilia percorsi dai venti dei vulcani, o dai rugginosi bagliori delle mattanze di tonni nelle camere mortali.

E.Brai 'Partenze'E poi, come non rileggere (in questa rassegna posta nella “Quadreria Mediterranea” di Palazzo Chiaromonte-Steri), con un certo tremore, le immagini relative alle miniere? Il racconto dei “carusi” dice d’una realtà antropologica e sociale spaventosa, innegabile nel suo atroce squallore, dalla quale diffonde una materia magmatica di azioni violente, di comportamenti deviati. E di tali travagli vi esala l’abolizione di ogni necessità materiale e spirituale tanto che la stessa Chiesa ne peggiorava il disagio non accogliendo, con funerali cristiani, quei minatori morti nelle umide gallerie del sottosuolo. Una realtà mineraria della Sicilia, che nei ‘visus’ collazionati da Brai, si coagula l’icona lancinante di una povertà materiale e morale accusatrice, proprio nel volto tragico della fanciullezza negata e degli uomini resi negletti, spezzati, privati dalla voce.

Sicilia del contrasto, dunque. La «bella Trinacria, che caliga… per nascente zolfo», come di essa si canta nel Paradiso dantesco (VI, 67-70), ci viene così restituita quale scrigno in cui si agitano sofferenza e gloria dell’uomo, iperbole del manufatto e pagine agre poste lungo la via dello zolfo, armonie tragiche del lavoro e miseria urbana, opulenza architettonica e  monumentalità botaniche, creatività fabrile di artisti, artigiani e forza sotterranea e molecolare delle parole, d’una scrittura della vita, delle cose e delle anime da cui ogni elemento sugge la sua linfa.

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