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Al Teatro Massimo un accurato necrologio

di Redazione

Vincenzo Bellini e Felice Romani, profondamente addolorati, piangono  la scomparsa della loro cara Norma, soffocata per orrore da una poco attenta regia dal 17 al 25 giugno 2014.

 

di Federico di Napoli

Come è noto, la prima assoluta di Norma, il 26 dicembre 1831 al Teatro alla Scala di Milano, fu un solenne fiasco, come del resto lo stesso Bellini scrisse la medesima sera all’amico Francesco Florimo. Tuttavia, già la sera seguente, il pubblico milanese osannava l’opera belliniana.

Il fiasco della prima fu attribuito prevalentemente a due motivi: innanzitutto al disappunto nei confronti di Romani, il librettista che aveva usato già per due opere una trama simile, ovvero Medea in Corinto di Simon Mayr, rappresentata al Teatro San Carlo di Napoli il 28 novembre 1813, e la più recente La sacerdotessa d’Irminsul di Giovanni Pacini , rappresentata a Trieste l’11 maggio 1820; e secondariamente proprio alla rivalità col Pacini, la cui clac fischiò impietosamente l’opera per la suddetta similitudine. Una terza ipotesi attribuisce l’insuccesso alla “Pasta un po’ scotta”, cioè al fatto che Giuditta Pasta, interprete principale, non stesse bene in voce. Il disappunto del pubblico si è ripetuto a Palermo il 16 giugno 2014, e ciò non tanto per un opera già affermata e amata da quasi 2 secoli, quanto piuttosto per la regia – ed era ora – e per l’allestimento in coproduzione con l’Opera di Stoccarda.

Cerchiamo di riassumere ciò che sarebbe meglio dimenticare, ma è giusto rispettare i pareri e l’estro altrui!!

Dopo una sinfonia diciamo pure discutibile (perdoniamo comunque il direttore tedesco Will Humburg, già direttore artistico al teatro Bellini di Catania, che dirigeva per la prima volta l’opera in Italia), si alza un nero sipario sulla scena del 1°atto, e lo spettatore che conosce l’opera rimane – per così dire –  alquanto perplesso, se non addirittura totalmente sconcertato. Che c’entra? Che vuol dire? Il bosco con la quercia d’Irminsul è sparito. Allo spettatore appare l’interno di una mal ridotta chiesetta di campagna, non importa se cattolica, protestante o ortodossa, con banchi, sedie e donnette che si scambiano sommesse chiacchiere. L’ambientazione si può attribuire alla prima metà del secolo scorso, prima della seconda guerra mondiale. A questo punto arrivano i druidi e le donnette vanno via; questi son contadini, boscaioli, cacciatori, persone di ogni ceto e di ogni età, insomma sarebbero i guerrafondai. Il  più distinto è Oroverso, capo dei druidi, che più che un sacerdote appare come il sindaco del paese, allora podestà (vista la collocazione non classica, ma fra le due guerre), perfettamente abbigliato in giacca e cravatta. Il paragone potrebbe reggere, e si potrebbe fare un accostamento anche all’appartenenza di Bellini e Romani alla setta della Carboneria. Tuttavia l’ambientazione cozza, ovviamente, col libretto, e le parole fanno riferimento a un tempo che non esiste più. Il dio Irminsul e l’altar di Venere in una chiesa cristiana? Mah! Quindi Norma coglierà il vischio da un bouquet posto sopra un catafalco con tanto di defunto che si presumerà in seguito essere una vittima da immolare. Al proconsole romano Pollione, privo ovviamente della storica armatura, viene affidata la parte di un solenne cafone che, con l’amico Flavio, usciti i druidi, sbuca – grande trovata scenografica e registica – proprio da sotto i banchi dove quelli erano seduti, e “naturalmente” – come per incanto – senza vederli …!!!    Non voglio dilungarmi oltre sulle innumerevoli incongruenze registiche, preferendo spostare l’inquadratura sui cantanti, anch’essi – va detto con sincerità – non perfettamente al massimo della forma. Il tenore ha palesato delle incertezze, specie nella prima parte, però col merito, forse più del direttore, d’aver ripetuto due volte la cabaletta “Me protegge, me difende”, in genere non sempre ripetuta come Bellini comandava, dando così al bravo Flavio la possibilità di aggiungere le poche parole che completano la sua parte.

Norma e Adalgisa, rispettivamente  Katia Pellegrino ed Eufemia Tufano, hanno sostenuto dignitosamente la loro parte. Oroverso,  il basso Dario Russo, senza alcun dubbio è da considerarsi il più bravo del cast, anche se insieme al coro, ben diretto come sempre da Piero Monti, è uscito fortemente oppresso dai costumi troppo pesanti. Dopo gli applausi ai cantanti e al direttore è esploso il disappunto del pubblico. I sonori “buuuuu” non sono certamente mancati, investendo però il bersaglio sbagliato: ovvero il povero personaggio che entrava in scena per ultimo e che tutti hanno erroneamente scambiato per il regista.

 

Cast 18-6-2014

Oroveso: Dario Russo (18, 21).

Pollione: Rubens Pelizzari (18, 21).

Adalgisa: Eufemia Tufano (18, 21).

Norma Katia: Pellegrino (18, 21).

Clotilde: Carmen Ghegghi (18, 21, 25).

Flavio Flavio: Francesco Parrino.
Maestro del coro: Piero Monti.

Direttore: Will Humburg.

Regia: Jossi Wieler, Sergio Morabito.

Assistente alla regia: Samantha Seymour.

Allestimento: Opera di Stoccarda

Scene e costumi: Anna Viebrock

 

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