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Siamo lo stesso coinvolti

di Redazione

Domenica sono entrato in carcere. Questi spazi sono tra due ordini di sbarre, quelle dei corridoi e quelle delle finestre che si affacciano verso la città. Verso una via d’uscita che non è prevista, se non in un futuro spesso troppo in là da venire

Di Walter Nania

Domenica sono entrato in carcere. Da semplice ospite, senza manette. Ho attraversato i cancelli, passato l’Ottagono dove si aprono i corridoi. La prima cosa che mi colpisce è la vista delle chiavi, che rimandano la mia mente ad un suono quasi medievale. Le immagini che ho di fronte agli occhi sono in bianco e nero, come quelle di un reportage fotografico. Seguo il percorso che mi viene indicato, spogliato dei beni che ho addosso. Senza nessun appiglio verso l’esterno, vengo accompagnato dagli agenti della Polizia Penitenziaria attraverso antri umidi, volte enormi che mi sovrastano, in rovina, corrose dall’umidità, ultimo slancio verso il mondo esterno. Ancora un corridoio e salgo lungo una scaletta stretta e rotta. Accede direttamente a un secondo ambiente, sempre a volte, più stretto e lungo: sono dentro uno dei raggi del carcere, abbandonato e tuttavia affascinante. Un corridoio con una serie di celle minuscole. E per minuscole, intendo dire grandi come una cucina non abitabile, in cui vivono fino a sei persone. Alle pareti mensole composte da tanti pacchetti di sigarette uniti tra loro. Niente scaffali veri: il rischio di suicidio è troppo alto. Al di là delle celle, fra ritagli di calciatori, donne e vernice gonfia, le sbarre. Questi spazi sono tra due ordini di sbarre, quelle dei corridoi e quelle delle finestre che si affacciano verso la città. Verso una via d’uscita che non è prevista, se non in un futuro spesso troppo in là da venire.

Sono investito dalla crudezza dell’iter carcerario di chi vi entra: l’ingresso nella struttura, dove il detenuto lascia i suoi averi che vengono catalogati e riposti in scaffali per ricevere in cambio una tuta, una coperta, un rotolo di carta igienica e due posate. A seguire, lunghi corridoi chiusi da cancelli ad intervalli regolari, l’infermeria, i muri delle celle coperti di graffiti che raccontano le vite di chi vi è transitato.

La vita del carcerato emerge come risultato di una condizione di marginalità sociale, che è rivissuta all’interno di un’altra situazione di marginalità, quella del luogo di detenzione. Marginale è la visibilità del problema, marginale è l’attenzione sul problema, marginale è la cura del problema. Il carcere si mostra così in tutta la sua filosofia afflittiva, fondata sul congelamento della persona e sul suo accorpamento e concentramento assieme ad altre persone. La repressione fine a se stessa e la promiscuità carceraria abbassano la qualità degli interessi personali del carcerato resettando ogni sua spinta verso la creatività, l’operosità, la positività. In pratica la pena tradizionale carceraria è inerzia, passività, de-responsabilizzazione.

Durante la “socialità” di questa Domenica ho avuto l’impressione di vedere il carcere per quello che esso rappresenta per molti: una sorta di pattumiera dove viene gettato ciò che la società non vuole vedere. Penso all’opinione comune su chi delinque, alla presenza di insanabili criminali, ma non riesco a non pensare a ciò che mi separa da chi vi abita, una linea sottile. Mi sarebbe bastato nascere nel quartiere sbagliato, perdere la pazienza una volta di troppo, vivere in miseria ed ignoranza, senza speranza di futuro, o essere semplicemente un immigrato, insomma in qualche modo sbagliare e sarei stato io al loro posto.

Il problema della prigione è dunque di tipo teorico o di tipo pratico? Come si deve definire il potere della giustizia? Come fare ad applicare la giustizia? Prima di tutto bisognerebbe definire la legge, poi le sue modalità di applicazione, infine, la legittimità di questa. Posta la legge, c’è da affrontare la sua dimensione pratica, ovvero l’applicazione del potere. Mi viene in mente la critica di Michel Foucault alle prigioni. Il titolo della sua opera è “Sorvegliare e Punire”, mi chiedo se non sia solo questo il senso delle carceri nel nostro Paese: sorvegliare e punire.

Fine visita, esco dal carcere, apro una porta a vetri e sono nella Galleria Vittorio Emanuele II a Milano. Questo è il carcere visitato, “Il chiaroscuro del carcere”, mostra fotografica promossa dalla Camera Penale di Milano e dall’Associazione Nazionale Magistrati con l’obiettivo di raccogliere fondi per creare un laboratorio fotografico per i detenuti. “Il detenuto è seguito in tutto il suo percorso – spiega il legale e autore delle fotografie Alessandro Bastianello – dalla durezza del suo ingresso nel carcere di San Vittore, alla sala registrazioni, per finire alla sala perquisizioni e all’arrivo in cella. L’idea è nata quasi casualmente come Camera penale. Dopo aver fatto i primi scatti ci siamo decisi a provare a creare un percorso emozionale sulla vita all’interno di San Vittore. Volevamo mettere in sequenza e cercare di fare percepire la desolazione che accompagna un detenuto in questa sorta di discesa agli inferi che viene vissuta ogni giorno. Uno degli scatti più crudi riprende la panca dove i detenuti aspettano nudi prima di essere perquisiti. Per persone normali l’impatto a San Vittore è devastante, e lo sarebbe maggiormente se non ci fosse l’umanità del personale”.

Non è facile guardare, osservare, scoprire i ranghi più bassi dell’umanità, quando non vi si appartiene, e la galera che ho osservato è un grande spartiacque, sia sulle opinioni della gente sia per quella dimensione di marginalità prima citata. Mi è chiaro però che per molti i problemi siano altrove: posso solo chiudere il coperchio della pattumiera e sperare che presto arrivino gli spazzini a portarla via?

 

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