Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

L’olio di Samih

di Redazione

Fino all’arrivo degli americani in Iraq c’era tranquillità per i palestinesi. C’erano altri problemi, ma non per i palestinesi”. Dopo il 2003 il Paese diventa un carcere, cominciano lotte fratricide tra sciiti e sunniti, ritorsioni. Da allora, per loro comincia il calvario. Storia di un palestinese a Palermo

 

di Walter Nania 

 

 

L’intervista comincia con un perentorio “Io sono”. Samih è a Palermo da un anno e mezzo e sul fuoco sta scaldando l’acqua per preparare un thé. Nasce in Libia da genitori palestinesi, trascorre la sua infanzia in Palestina, a sud di Gaza, in uno di quei lembi di terra allora sotto la tutela dell’Egitto (il che gli permette di ottenere anche un passaporto egiziano), e all’età di otto anni si trasferisce a Baghdad. Suo padre era un diplomatico, si muoveva spesso nei paesi arabi. “A Baghdad ho studiato science studies, informatica all’Università. Fino all’arrivo degli americani in Iraq c’era tranquillità per i palestinesi. C’erano altri problemi, ma non per i palestinesi”. Dopo il 2003 il Paese diventa un carcere, cominciano lotte fratricide tra sciiti e sunniti, ritorsioni. Nel 2006 viene loro intimato di lasciare l’Iraq e Samih insieme alla famiglia si trasferisce in Siria, dove rimarrà un anno e sei mesi. “Lì arriva la polizia segreta di Bashar al-Assad che ci caccia e ci rispedisce in Iraq, dove però non potevamo entrare, quindi sostiamo fino al 2009 in un deserto, nella zona di confine tra Iraq e Siria”. Saranno mille i palestinesi iracheni rifugiati in quel campo improvvisato. Si chiamava al-Tanf, campo in seguito sotto tutela ONU, che all’inizio del 2009 stipulerà accordi con l’Unione Europea per l’accoglienza dei rifugiati. Con altri tre gruppi familiari Samih giunge in Italia, a Riace, il 18 Dicembre 2009. Rimane lì un anno e mezzo “senza far niente. Non esiste proprio, casa e mangiare ma senza fare niente, un piccolo sussidio con buoni spesa. Questo doveva durare due anni. Abbiamo provato a contattare il Ministero dell’Interno che aveva gestiva il progetto di accoglienza perché c’erano molti anziani nel gruppo. E dopo i due anni questi vecchi che facevano? Le persone non vivono per mangiare, mangiano per vivere. Non potevi parlare con nessuno e le scuole per imparare la lingua funzionavano poco”. Un giorno Samih decide di unirsi ad un gruppo che vuole fuggire per raggiungere la Svezia, il paese che aveva accolto subito l’appello dell’ONU. Nel paese scandinavo ha inizio una causa di mediazione tra UE, Svezia e Italia, “ma non per rimanere lì, per tornare in Italia, ma con un progetto più preciso”. Rimane sette mesi a Stoccolma in attesa che i due paesi facciano un accordo per il rientro dei palestinesi fuggiti dall’Italia. Il governo italiano promette miglioramenti delle condizioni di vita e redistribuzione in altre città per un periodo di sei mesi alla volta. “Poi ci pensi tu a sistemarti con la tua stessa mano. In aeroporto, in Svezia, mi hanno assegnato a Mondragone, insieme ad altre dieci persone, mentre due miei fratelli a Roma e il terzo a Pisa. A Mondragone ho cominciato a cercare lavoro, ho fatto domanda ad alberghi e ristoranti ma non ho trovato nulla. Avevo esperienza nel settore, a Baghdad avevo una caffetteria”. Una mattina Samih riceve una telefonata dalla sua amica Marina per comunicargli la disponibilità di un ristoratore palestinese ad assumerlo. Cercava un cuoco per il suo ristorante palermitano. Ottenuto un permesso per allontanarsi da Mondragone, si reca per 24 ore nel capoluogo siciliano, dove si trasferirà a partire dal 2012. “Lavorando ho cominciato a sistemare anche me stesso. Ho affittato una stanza. Poi la relazione con la mia amica, Marina, diventava qualcosa di più serio, pensavamo di sposarci e così è stato, il giorno di Pasqua del 2012. Dal 2006 ad oggi sono passato da una tenda nel deserto ad una casa, lavoro, una moglie”. Samih si sveglia presto, lavora tutto il giorno, familiarizza con i termini burocratici e cerca locali disponibili per il ristorante che ha intenzione di aprire e per offrire lavoro ai suoi familiari. Acquista una, due, tre sedie, un bancone da lavoro, un forno. “Ho affittato un locale vicino l’Università ed è cominciata una nuova storia. La mia idea era servire i ragazzi, con un misto di cucina araba e italiana, kebab, piatti a base di fave, humus ma anche pizza, magari palestinese. Come si fa la pizza palestinese? Vedrai, dico solo che la pasta è diversa, è più croccante. Il locale si chiamerà Zaytuna, che significa oliva, perché anche in Palestina, come in Italia, l’olio è molto famoso, voglio usare quello nella mia cucina. Ho trovato questo nome che è più adatto a me, speriamo di ricevere presto i documenti così facciamo assaggiare i nostri piatti”. Il thè è finito e Samih dice: “finito il thè, finita la mia storia. Io sono”.

 

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