Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

Gli occhi di Alam

di Redazione

Bambini che studiano di giorno per cambiare le sorti della propria vita e  lavorano di notte per aiutare la propria famiglia. E’ l’esperienza quotidiana di un piccolo indiano immigrato a Palermo e di altri bambini immigrati come lui. Sfruttamento minorile o disperazione?

di Fabio Vento

Non è difficile, se la notte siedi a un tavolo al centro di Palermo, che prima o poi si affacci un venditore ambulante. Accendini, carte da tabacco, chingaglierie di incerta qualità e ancor più dubbia utilità. «Una scocciatura» sentenzia il tuo sopracciglio più pedante e arcigno, mentre gli occhi scrutano la merce più per curiosità che per vero interesse. Ma fra le mani che stanche trasportano la merce, dietro i sorrisi a bella posta e l’irruenza che il bisogno trasforma in mestiere, ci sono persone. E storie.

Alam, non è questo il suo vero nome, ha sedici anni e un fascino magnetico. Quel fremito nervoso di chi attende un “sì” o un “no”, giusto per passare al tavolo successivo, non sembra appartenergli. Al contrario ti stupisce per la paziente serenità, mentre dal fondo degli occhi neri ti scruta curioso. E poi sorride, sorride davvero.

Tanto basta per diventare amici. E così, sera dopo sera, una domanda alla volta, incastri i tasselli della sua storia personale. Il suo italiano è stentato e impreciso, ma riesce a farsi capire. Una famiglia numerosa, l’infanzia trascorsa interamente in Bangladesh, nella città di Sylhet. Coglie la tua curiosità e allora si affretta a mostrarti qualche immagine, dal suo smartphone che coi vestiti spartani fa un po’ a pugni. La prima foto è quella delle cascate naturali del Madhabkunda, uno spettacolo per gli occhi e per il cuore;. Poi le alte colline, sovrastate da distese sconfinate di verde rigoglioso. Infine la città vera e propria. Intensa e drammatica, i suoi colori accesi dividono equamente povertà e ricchezza. Di tutto ciò – pensi – qualcosa deve aver portato con sé.

Poi il trasferimento, a soli 14 anni, con i genitori e una delle due sorelle; lasciando in patria l’altra, che si era già sposata. Ti chiedi come deve essere, a quell’età, abbandonare ogni cosa. Per un paese che non è il tuo, una lingua che non ha alfabeti per le tue domande. Eppure nei suoi occhi non leggi sconforto. Forse è quell’eterna speranza che solo chi è giovane riesce ad avere; o forse è semplice ingenuità.

Un piccolo appartamento, affittato in nero, nei pressi della stazione di Palermo. E tutto cambia: nuova scuola, nuovi amici, nuove frenetiche giornate. Ne accenna appena, Alam, ma capisci che è stato difficile. Una classe dov’era l’unico straniero, una lingua sconosciuta, il confabulare di qualche  compagno, già abbastanza grande per praticare quell’assurda diffidenza per chi è “diverso”. Ma ce l’ha fatta, ed è con fierezza che parla dei suoi buoni voti. Dei compiti, che occupano tutto il suo pomeriggio.

E la sera, almeno tre volte a settimana, inizia la metà amara della vita: il lavoro. La famiglia – lo dice con piglio risoluto – ne ha bisogno, ora che il padre è tornato in patria. Fino all’una di notte, o anche oltre, svicola nello scuro e nella confusione della Vucciria, dei Lattarini, del centro storico. Affacciandosi alle risate e alle solitudini di tanti sconosciuti. A tracolla un espositore e dentro accendini di tutte le forme e colori: «Li compro in blocco su Internet» dice, e ti chiedi se sia vero o se invece cerchi di coprire un qualche “datore di lavoro” che preferisce restare nell’ombra. Almeno fino al momento di riscuotere.

Gli chiedi come lo tratta la gente. «Mah – risponde lui – spesso fanno finta di non vedermi. Qualche volta comprano». O peggio ancora: un paio di volte è stato anche derubato della merce, fra lo scherno e gli insulti. Vittima del sopruso vile di chi, in gruppo, sa di aver davanti un “fantasma”. Com’è chi, per necessità, pratica il lavoro nero.

«E il giorno dopo, alle sette, di nuovo in piedi per andare a scuola»: lo dice con la naturalezza di un dato acquisito, di un assioma indiscutibile. Solo la domenica è tutta per lui, per le passeggiate, per gli amici che questa nuova città così avara gli ha regalato. Sul futuro ha i suoi propositi: aspetta di finire il liceo, poi gli piacerebbe fare l’università. Glielo auguri di cuore.

Gli dici che gli immigrati della sua età, qui come altrove, non dovrebbero lavorare. Che dovrebbero riscattare la risorsa più preziosa: il tempo per crescere. Non risponde, ti chiedi se abbia capito. Allora, mentre lo saluti, gli auguri che il seme della sua grinta dia un giorno il frutto più prezioso: quello di una sana indignazione.

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