Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

L’UOMO DELLA FOLLA

di Redazione

Solitudini ed altre alienazioni metropolitane alla galleria Mediterranea di via D’Amelio dal 28 settembre al 24 novembre

di Salvo Ferlito 

La solitudine e l’alienazione metropolitane come cifre dell’inquieta dimensione esistenziale dell’uomo contemporaneo.

E’ questo lo stato di nevrosi che contraddistingue la convulsa quotidianità de L’uomo della folla, l’angosciante personaggio nato dalla penna di Edgar Allan Poe più di centocinquanta anni fa, presaga e pertinente metafora di quel senso di sperdimento e di desolazione di cui è spesso preda chiunque viva negli scenari urbani d’oggigiorno.

Proprio l’esigenza compulsiva di allontanarsi rapidamente dalle vie meno battute e più isolate, all’ansiosa ricerca di strade e viali affollati e popolosi, – così lucidamente raccontata dallo scrittore americano – è senza dubbio uno dei tratti “sintomatici” del coattivo (e patologico) viver quotidiano di milioni di individui urbanizzati in tutto il mondo. La città, dunque – e non a caso – è il contesto elettivo in cui detonano incontrollabilmente le ubbie e i timori più riposti e disturbanti, e tutto ciò per quelle caratteristiche strutturali di “comprimente contenitore” che la connotano dal suo lontano incipit e che ne fanno un ben congegnato strumento di induzione e condizionamento dei comportamenti individuali e collettivi. L’essere – ab origine – luogo di concentrazione e di inquadramento di masse con evidenti finalità di controllo sociale ed organizzazione produttiva; il rappresentare un fattivo mezzo di potere mediante il quale operare “strutturalmente” un’attribuzione dei ruoli e una disciplina delle dinamiche dei singoli e dei gruppi; l’esprimere formalmente le idealità delle élites e delle classi dirigenti con l’intento di celebrarne la capacità di definizione del corpo sociale (e quindi la volontà di potenza con cui incidere nel corso della storia) sono tutte caratteristiche fondanti e costitutive dei modelli urbani sin dalla più lontana antichità, alle quali va ascritto quell’intrinseco potere di coercizione dell’identità individuale, da cui discende – in concreto – l’insieme di paure e di nevrosi palesemente distintivo della condizione di minorità dell’uomo urbanizzato in ogni periodo storico e ad ogni latitudine.

Una situazione che non è in effetti di molto migliorata nel corso dei millenni, e che per certi aspetti è addirittura peggiorata negli ultimi tre secoli, nonostante il notevole sviluppo delle scienze e delle tecnologie. Il progressivo incrementarsi (dal ‘700 in poi, con l’innesco della rivoluzione industriale) dei fenomeni di inurbamento forzato di masse contadine, in relazione alla velocizzazione dei processi produttivi ed all’aumento degli scambi mercantili e delle transazioni finanziarie, ha infatti determinato un’estensione ed un’accelerazione tutt’altro che virtuose dei meccanismi di urbanizzazione, portando ad un ulteriore aggravamento del senso di inadeguatezza e di alienazione di tutti quei soggetti meno capaci di integrarsi nelle strutture morfo-funzionali del sistema. Ciò ha condotto, inevitabilmente, all’accentuarsi dei processi di inclusione ed esclusione all’interno del tessuto urbano, dilatando le distanze fra le classi sociali e causando delle crescenti dinamiche di marginalizzazione, con una vera e propria distribuzione di tipo socio-topografico sul territorio. Dalla città a strati (già classista e tuttavia in grado di legare, seppur per mera contiguità, cittadini di differente estrazione) si è passati ad un impianto urbanistico a macchia di leopardo (con gli abitanti assortiti per quartiere in base alle affinità di censo e di costume), tendente a “perifericizzare” sempre più gli esponenti dei ceti subalterni e sottomessi. Un andamento i cui esiti sono palesi in tutta la loro violenta “pressione selettiva”, come del resto ampiamente dimostrato dagli assetti delle grandi città contemporanee, con i loro centri radicalmente “gentryfgicati” (cioè depurati della stabile presenza di elementi della working class e omologati nella loro architettonica scenografia e nel loro lindo ed esibito ordine) e con le periferie ridotte a dormitori o a sentine sociali (e questo ad onta dell’intervento di grandi architetti ed urbanisti, di fatto responsabili di autentiche operazioni di segregazione), in ottemperanza a spinte centripete e centrifughe impresse secondo drastici criteri di darwinismo sociale e di estremismo pragmatista. Da tutto ciò non poteva che derivare un forte senso di insicurezza e di precarietà, e conseguentemente una condizione psichica di tipo compulsivo, tendente a indurre la spasmodica ricerca d’una pur minima parvenza di relazionalità, sì da poter fugare – almeno temporaneamente – il panico da isolamento e alienazione e da poter – contestualmente – diluire (e in certo qual modo anche annullare) la propria identità in quella del gruppo, ponendo in essere quelle “rassicuranti” dinamiche di omologazione che sono uno dei caratteri distintivi (e assai inquietanti) delle masse nelle cosiddette società avanzate.

Proprio l’essere al contempo schiacciante e incombente leviatano e presunto catalizzatore d’ogni possibile cinetica sociale, ha fatto della città l’insistito oggetto di analisi acute ed impietose, condotte non soltanto da “addetti ai lavori” (urbanisti, sociologi, economisti, antropologi, psicologi e psichiatri) ma anche da artisti assai lungimiranti (come il nostro E. A. Poe) che da almeno centocinquant’anni scandagliano ogni possibile risvolto della vita cittadina, enucleandone gli aspetti più sgradevoli, inquietanti e controversi. Basterebbe qui ricordare il rilevante contributo visuale offerto dalla pittura (dagli impressionisti a Toulouse Lautrec e Daumier, da Ensor a Grosz e Dix, fino ad Hopper, con le loro graffianti e stranianti narrazioni per immagini) e più di recente dalla fotografia (da quella americana della grande depressione a quella cosmopolita di Cartier Bresson) e dal cinema (da Metropolis di Fritz Lang a Blade runner di Ridley Scott, per citare qualche esempio illuminante), per cogliere a pieno le potenzialità analitiche (e profetiche) insite nelle arti visive e quindi per comprendere le ragioni alla base di una mostra che proprio da L’uomo della folla di Edgar Allan Poe prenda l’innesco ispiratore e il tema unificante.

Ecco allora il brulicare formicolante e indistinto della folla in una antica piazza cittadina (nello specifico la palermitana Vucciria), il suo molecolare e casuale interagire intorno ai banchi d’un mercato in una sommatoria massificante di individui, venire scandagliato da Croce Taravella col proprio peculiare linguaggio vedutistico, come a restituire idealmente gli scenari evocati da Poe e ad inquadrare la stretta interrelazione fra la cogenza delle architetture e l’omologazione delle moltitudini. Una interazione fortemente “costrittiva”, quella fra metropoli e abitanti, di cui dà parimenti conto Gaetano Costa, i cui personaggi paiono muoversi – non a caso – come in preda ad una materica decomposizione di facies e soma, a testimonianza di quell’ingravescente disfacimento dell’Io psicosociale, irreversibilmente indotto dall’imponenza leviatanica e dal potere fagocitante della dimensione cittadina.

Le dinamiche incalzanti del viver quotidiano, i frenetici ritmi dettati dalle esigenze produttive, la redditività come misura prevalente dell’immagine sociale, agendo come strumenti di “filtro selettivo”, finiscono con l’innescare inevitabilmente spinte inerziali di marginalizzazione, confinando gli individui in ambiti di minorità da cui è assai difficile riemergere e nei quali il contatto umano è solo alienata condivisione d’una subalternità. Così uno squallido vagone della metropolitana diviene l’obbligata sentina di annichilite solitudini; contenitore di persone senza nome e senza storia, di cui la millimetrica matita di Antonio Miccichè restituisce l’agghiacciante situazione psichica e sociale, nei termini d’una narrazione neorealistica che nulla lascia al caso, a censure o a infingimenti, ergendosi a desolante denuncia d’un inaccettabile stato delle cose. Analogo sentire nell’istant painting di Massimo Saitta, cronachistico fermo-immagine su un gruppo di neo-poveri all’interno d’un anonimo discount, in un “gomito a gomito” indotto da miseria materiale e bisogno affannoso, a conferma inoppugnabile di come le deliranti follie dell’economia possano conferire alla vita cittadina i connotati sconfortanti d’una condizione vieppiù disperata e neoservile.

Altrove, viceversa, l’occasione d’una qualsiasi forma di socialità può acquisire il carattere caricaturale d’una commedia dell’assurdo, conducendo a esiti ridicoli, grotteschi o sconcertanti. Ecco quindi i tre tuffatori dipinti da Nicola Pucci lanciarsi contemporaneamente in una microscopica piscina, a esemplare – nella totale noncuranza degli sviluppi “traumatologici” del loro agire e nell’assoluta indifferenza alla pur ingombrante presenza altrui – il paradosso contemporaneo d’una relazionalità profondamente disturbata, ove le meccaniche dell’alienazione paiono prevalere nettamente su quelle della coordinata e partecipata interazione, in uno stato autolesionistico di anestesia ed anaffettività. Similmente, il senso del distacco dalla realtà sociale e il bisogno angosciante d’un feticcio di rapporto interpersonale spingono il disperato personaggio di Roberto Fontana a scelte estreme e radicali, in quella “terra di nessuno” – al limite fra l’assoluta presa di coscienza e il completo sconfinamento psicopatologico – nella quale l’unica possibile socialità è relegata al solo contatto con un branco di maiali, eletti a metafora compiuta del dilagare di meccanismi sociopatici nel ventre oscuro delle città.

La stretta e deterministica interazione fra i contesti urbani e i dinamismi intrapsichici dei singoli abitanti fa dunque della metropoli il ricorrente scenario d’una relazionalità coatta e perturbata, raramente frutto di scelte selettive e consapevoli e per lo più conseguenza d’un impellente pavor solitudinis che induce il singolo ad annullarsi nella massa. Ed è proprio questo lo stato d’alterazione fissato da Tino Signorini col suo caratteristico contè: come roso da una pulsione irrefrenabile, infatti, il suo febbricitante “uomo della folla” affiora dalla caliginosa penombra d’un anonimo spaccato di periferia, offrendo in tutta la sua angosciante evidenza il quadro sintomatologico d’una dimensione esistenziale ormai ampiamente fuori controllo e totalmente mortificata da un bisogno di socialità neurotico-ossessivo. Un dato – quello della socialità malata che diviene asocialità o antisocialità – che si evince in tutta la sua lombrosiana evidenza anche nell’articolato casellario giudiziale di Andrea Volo; non a caso una serie di criminali mutuati da foto segnaletiche australiane, che esemplano – con clinica pertinenza – lo sconfinamento dell’Io profondo nei territori oscuri d’una quotidianità relazionale ormai fatta di esclusiva violenza e sopraffazione. E d’altronde anche il suadente volto di fanciulla tratteggiato con rinascimentale perfezione da Omar Galliani, col suo esibito e apatico distacco dalla realtà e coll’ineffabile malinconia di cui è circonfuso, pare rientrare pienamente negli ambiti d’una modalità di relazione ampiamente disfunzionale, ergendosi ad esemplare allegoria d’uno slpeen e d’un solipsismo da profondo e incurabile disadattamento.

Una patologia dell’interazione – quella prodotta dalle schiaccianti meccaniche della metropoli – che ha il suo dovuto opposto speculare nelle ubbie e nelle convinzioni d’una élite sociale i cui interessi di casta sono da sempre alla base dei discutibili processi di costruzione della forma urbis. Così l’altrui presenza, l’occasione d’un incontro casuale con un proprio “pari”, diviene, nella graffiante e paradossale situazione vissuta dai tipici “borghesi” di Renato Tosini, pretesto e fonte di profonda diffidenza ed ansietà, in quanto confronto-scontro fra potenziali competitori (bio-sociali) volti al raggiungimento di analoghi obiettivi di affermazione personale e di difesa d’un proficuo status quo. Un’antisocialità cui soggiace – non di meno – anche il “borghese” di Gloria Argelés, il quale, col suo perfetto abbigliamento da burocrate inquadrato, sicuro nell’incedere verso i propri traguardi di successo, non riesce tuttavia a sottrarsi alla gora dell’isolamento da ipercompetitività, rivelando, nell’evanescente e indistinta fisiognomica da ectoplasma, un grado di alienante e seriale omologazione, per nulla inferiore – in definitiva – a quello cui sono sottoposti i soggetti totalmente subalterni e marginali.

La piena interconnessione fra architetture metropolitane e innesco dei moti della mente (e dei relativi comportamenti) affiora però non solo in termini di reattività esibita ed estroflessa, ma anche nelle forme “mimetiche” del nascondimento e della introversione. In tal senso l’anonimo scorcio urbano dipinto da Andrea Di Marco, con la sua urbanistica cartesiana e razionale e con la sua desolazione impercettibilmente violata da una traccia di presenza, pare ergersi a luogo ideale (e quindi a calzante paradigma) di quel perfetto occultamento dell’Ego (e della connessa immagine sociale) che proprio la città contemporanea consente a chi voglia sfuggire al gravame e al logorio d’un ruolo civile pienamente consapevole e dichiaratamente responsabile. Una interiorità, quella dell’uomo urbanizzato, di cui Fabio Sciortino svela, con modalità aniconiche e informali, le continue e convulse turbolenze, mettendo a nudo il suo esser ampiamente irrisolta fra pulsioni socializzanti e completo cupio dissolvi, in un andamento vorticoso che pare non riuscire a trovare alcuna forma esteriore di tipo compiuto e definito. E proprio quell’attanagliamento che permea nel profondo la psiche de L’uomo della folla di E. A. Poe trova una icastica e totemica traduzione visuale nella vivace natura morta di cui è artefice Guido Baragli, non a caso – al di là dell’ironia, in vero amara, che la caratterizza – inquietante allegoria d’una presenza-assenza, ovvero di quell’irrisolto pencolare fra permanenza nel sistema e fuga dal contesto, di cui il cibo, non cucinato e abbandonato su dei fornelli spenti, diviene traccia residuale e allusivo indicatore.

Un “limen” assai sottile, quello fra identità e disidentità, fra vita civile e morte sociale, sul quale Philippe Berson ha costruito interamente la sua tanatologica e teatrale vanitas: memento mori attualizzato in un contesto cittadino, macabra riflessione sulla caducità d’ogni ruolo e sull’inconsistenza d’ogni immagine, rappresentazione feticistica d’una modalità di relazione sclerotica e bloccata dagli schemi vincolanti d’una socialità già mortuaria e mummificata.

Solo nell’autobiografica opera di Andrea Cusumano, infine, la relazione fra l’uomo contemporaneo e la metropoli leviatanica pare stemperarsi in tonalità meno cupe e disperanti, assumendo i connotati chagalliani duna narrazione fiabesca e fiduciosa: autoritrattosi in volo verso la City di Londra, egli rimarca la centripeta forza di fascinazione della città, rilanciandone il ruolo di gran teatro del mondo, di adeguato palcoscenico in cui cercare di esibire a pieno la propria individualità.

Condividi l'articolo:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.