Nuova edizione de L’Inchiesta Sicilia – Testata di approfondimento fondata nel Luglio del 1996 da un gruppo di giornalist* indipendenti

Arte e potere

di Redazione

Ruoli drammatici e ruoli brillanti. Tutti permeati, comunque, da grande impegno sociale e civile. Il volto poliedrico di Claudio Gioè, l’attore palermitano noto, ormai, al pubblico non solo per il suo talento, ma per il suo fervore culturale

di Elisabetta Cinà

Una carriera divisa tra cinema, teatro e televisione, dove i ruoli trovano, spesso, un comune denominatore o, meglio, una comune interpretazione: il siciliano doc. Ed è un siciliano doc quello che Claudio Gioè, attore poliedrico di origine palermitana, rappresenta per il suo vasto pubblico. Un po’ per il suo accento siculo, che non ha mai abbandonato del tutto, un po’ per l’espressione e la mimica tutta meridionale, ma al di là dei colori squisitamente nordici, lo ritroviamo spesso nei panni, per lui naturali, del siciliano. Tra piccolo e grande schermo, infatti, sono numerosi i ruoli del siciliano da lui interpretati. Il vero motivo, comunque, che lo spinge a rivestire questi ruoli è l’impegno profuso nella lotta alla mafia, ai soprusi, all’autorità soverchiante, al potere coatto, alla negazione dei diritti. Una lotta civile che Claudio Gioè trasferisce tutta nella sua arte.

Dopo la maturità classica conseguita a Palermo, si trasferisce nella capitale dove si diploma presso l’Accademia nazionale di arte drammatica, frequentando contestualmente seminari con Luca Ranconi e dedicandosi al canto e alla danza.

Ma non sono soltanto il piccolo e il grande schermo a metterlo in luce. Anche il teatro, per il quale scrive e porta in scena Caligola Night Live, comincia a esercitare un certo ruolo nella sua vita professionale. Anche nel teatro riaffiora forte il suo impegno per i diritti civili. Un pretesto in più, il suo impegno teatrale, per calarci meglio nel fervore culturale che lo accompagna fedelmente sulla scena.

Un’opera quanto mai attuale quella di Calligola

Bhe…, nel mio lavoro parlo dell’ultima notte dell’imperatore Calligola che, asserragliato nel suo bunker, non vuole lasciare il proprio potere. Quindi, forse, si può trovare un riferimento con l’attualità politica. In realtà, si parla dei deliri di onnipotenza infantili nelle mani dei potenti di cui i nostri ‘politicucci’ rappresentano un riferimento molto vicino. Comunque, il discorso è molto più ampio e comprende una distorsione della nostra cultura in cui emerge il predominio dell’io.

Ormai Calligola ti segue da un bel po’ di anni. Come mai lo riporti in scena?

Lo riporto in scena per un motivo strettamente produttivo. Lo spettacolo non ha seguito il percorso naturale che dovrebbe seguire uno spettacolo, cioè non abbiamo mai  fatto una tournè di 5-6 mesi. Quindi, non ha avuto il tempo di esprimere tutta la propria potenzialità. Purtroppo lo abbiamo portato in giro sempre a pizzico e bocconi, un po’ qui e un po’ lì. Non ho mai avuto l’opportunità di farlo entrare nel grande circuito teatrale.

Perché?

Perché non conosco nessuno. Purtroppo in Italia funziona tutto così; devi avere chi ti sponsorizza. Quindi, ho fatto solo ciò che ho potuto; presentarlo solo dove ho potuto con i miei mezzi

Scusa, ma in Italia non funziona tutto per meritocrazia?

Vedo che anche tu fai parte del mondo all’incontrario. Anche io pensavo funzionasse così, ma mi sono dovuto ricredere.

Cos’è che ha fatto scattare in te l’input a scrivere un lavoro teatrale dedicato proprio a Calligola?

L’ho scritto nel 98′, anche se poi è andato in scena nel 2004. Io all’epoca avevo, più o meno, 25 anni. E’ stata una genesi travagliata, ma trovavo dei punti di contatto anche anagrafaci. Calligola aveva, infatti, 24 anni quando diventa imperatore e si ritrova con questo potere enorme su tutto il mondo allora conosciuto. Questa tematica mi riportava a tanti aspetti della cultura deviata di allora. Cultura che, purtroppo, ci portiamo ancora dietro. L’impero romano culturalmente non è ancora finito.

Come vedi trattata la cultura oggi? Ti appare un po’ massacrata?

Domanda decisamente retorica. Direi proprio di sì. Mi sembra abbastanza massacrata. Oggi la cultura sembra non rappresentare più alcun valore, ma soltanto una spesa di bilancio da liquidare con favori ad amici che hanno velleità artistiche. Magari, amici dei politici. Manca un piano culturale organico e funzionale. Non esiste un programma di formazione che coinvolga i giovani; soprattutto nelle arti sceniche. In altri Paesi esiste da anni remoti ed è ben assodato. Noi viviamo in un Paese in cui dobbiamo inventarci, giorno dopo giorno, le modalità con le quali fare spettacolo, danza, musica, arte. Viaggiamo a vista.

Ci sono più professionisti o più artisti che si improvvisano tali?

Il problema non lo pone l’artista o chi si improvvisa tale; ma le istituzioni che danno i finanziamenti, che concedono gli spazi, che favoriscono l’accesso. Insomma, quei soggetti ai vertici del potere che tutelano, alimentano, aiutano e sostengono una categoria depressa e precaria. Perché gli artisti rappresentano la precarietà per eccellenza; anzi,  il precariato ce l’hanno proprio nel Dna. Siamo stati sempre precari sin dal Medio Evo, in cui, per un piatto di pasta, l’artista  girava per mesi e mesi da un paese all’altro, da un borgo all’altro. E ancora oggi l’arte soffre di questo precariato. Ben venga, quindi, anche chi si sveglia la mattina e decide di fare l’artista. L’importante è che non lo faccia attraverso gli amici potenti che gli consentono di farlo per intere stagioni

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